La frontiera di Bruce Springsteen

Gli album Nebraska e The ghost of Tom Joad , pubblicati da Bruce Springsteen a distanza di 13 anni uno dall’altro, presentano atmosfere e una coerenza stilistica simili. Entrambe opere acustiche, più buio nelle sonorità il primo, più omogeneo dal punto di vista musicale il secondo, sono tagliati da uno stesso tema. Nebraska e The ghost of Tom Joad sono pieni di uomini che tentano di resistere alla vertigine dell’illegalità (Atlantic city), che lottano per non varcare quel confine e si trattengono sull’orlo (Straight time), che lo infrangono inconsapevolmente (Jonnhy 99) o consapevolmente (Nebraska), che difendono la legge senza assolutizzarla (Highway Patrolman, The line), che la fuggono (State trooper), o che le oppongono una norma diversa (The new timer). La frontiera, scomparsa come luogo fisico, è sempre più una narrazione: il mito di una ideologia della conquista di un nuovo spazio, la penetrazione in un territorio nel quale l’ordine non è stato ancora stabilito, la legge dettata, la violenza bandita. Anzi è proprio la violenza il tramite attraverso il quale avviene la “fondazione”.


Non c’è nascita (di una nazione, di confini) senza violenza. Non è un caso che il cinema western, “il cinema americano per eccellenza” secondo la celebre definizione del critico francese Andrè Bazin, metta continuamente in scena la violenza, incarnandola di volta in volta in sceriffi, pionieri, soldati al galoppo, viaggiatori spericolati nella wilderness da colonizzare. Una volta che l’ordine è stato imposto, la legge scritta, la città edificata, la natura addomesticata, la frontiera non smette però di significare. Scomparsa come limite geografico, la frontiera, come vocazione - o condanna - al movimento, si è come conficcata nelle esistenze individuali. È ancora una violazione, un’urgenza ma che mette fuori gioco però un nuovo limite: la legalità. Chi infrange la legge è letteralmente un fuori-legge, qualcuno che ha violato lo spazio sacro della norma, che sta dall’altra parte, e che finisce per assomigliare fin troppo a quella wilderness che la frontiera penetra. Ai personaggi che infrangono la legge nelle canzoni di Springsteen è sempre associato il movimento, l’andare, la fuga, spesso disperata, spesso verso la morte. La rottura del vincolo comunitario rappresentato dalla legge è sempre reso da un movimento fisico. Chi fugge, chi fugge nella “notte nera come la pece”, è sempre solo, si è lasciato tutto alle spalle, ha reciso i legami che lo ancorano alla stabilità: famiglia, lavoro, comunità, casa. La fuga (nella notte, verso il Messico, nel sogno, nella morte) è figura dell’isolamento, della rottura di tutti i legami (quei “ties that bind”, quei legami che allacciano che Springsteen invocava nella canzone dallo stesso titolo nell’album The river), la notte – nella quale si perdono gli uomini in fuga - è il simbolo della cancellazione dell’identità. L’elemento naturale nei quale si muovono questi personaggi è sempre il buio, l’oscurità, un mondo fluttuante e senza contorni: i fiumi o gli alberi che essi sfiorano sono sempre “neri”, partecipano anche essi a un mondo senza identità, sono ridotti a ombre furtive i clandestini che tentano di varcare il confine. Al contrario il doppio del fuorilegge, il giudice, il poliziotto, l’uomo di legge, è sempre figura di stabilità. Il giudice è seduto sul suo scranno. Di lì giudica, condanna. E lo fa restando fermo. Più ambigua la figura del poliziotto: anche lui è un custode, custodisce il territorio ma è una figura in qualche modo ibrida: come vedremo, il suo movimento è diverso da quello del fuorilegge, il suo movimento è un riconfermare piuttosto che un violare. (Ancora una volta è la stessa dinamica della frontiera a riemergere, con il suo ambivalenze rompere un confine e ricostruirlo e l’impossibilità di “abitarlo”).


E’ il demone dell’isolamento che si impossessa dei personaggi di Springsteen che essi incarnano - è un vuoto di relazioni che le canzoni mettono in scena. Senza più legami, senza più appartenenze, senza una comunità nella quale collocarsi, i protagonisti vagano senza più punti di riferimento, finendo per oltrepassare quel confine tra ordine e caos  rappresentato dalla legge: sono violazioni. La loro stessa essenza, la loro stessa esistenza è una violazione. Con una differenza tra Nebraska e The ghost oh Tom Joad: nel secondo, emergono tentativi di creare delle comunità per così dire periferiche, minori, vicarie che spesso vengono spazzate ugualmente via. Come in The New timer, storia di una “adozione” tra due vagabondi, uno dei quali, il più anziano, il “maestro” viene ucciso, lasciando l’altro solo e in preda alla sete di vendetta (“Mio Gesù/ il tuo amore prezioso e la tua pietà/ mi dispiace proprio/ ma stanotte non riescono proprio a riempire il tuo cuore/ come un buon fucile e il nome di chi devo uccidere”).
E’ lo stesso Springsteen a raccontare la gestazione di queste canzoni, il nucleo “emotivo” dalle quali sono nate:

Penso che si possa arrivare a un punto in cui il nichilismo prende il sopravvento e le leggi fondamentali istituite dalla società – leggi religiose o sociali - diventano prive di senso. Le cose allora si mettono davvero male. Perdi quei freni e tutto il resto va in malora. Le forze che mettono in moto tutto questo, non so esattamente quali possano essere. Penso solo molta frustrazione, non riuscire a trovare qualcosa a cui aggrapparsi, non avere contatti con la gente, chissà? E’ una delle cose più pericolose penso – l’isolamento. Nebraska parlava di questo isolamento americano: Cosa accade alle persone quando sono alienate dai loro amici e dalla loro comunità e dal loro governo e dal loro lavoro. Perché queste sono le cose che ti mantengono sano, che danno un senso alla vita, in qualche modo. E se scivolano via e cominci ad esistere in una specie di vuoto, dove i freni fondamentali della società sono uno scherzo, allora la vita diventa una specie di scherzo. E tutto può accadere”.


E’ un isolamento inscritto nel ventre e nella storia dell’America, un isolamento in qualche modo “originario”. Come ha scritto Alessandro Portelli: “Manca in America l’idea di un “sostrato folkoristico” e di una comunità organica originaria. L’origine nazionale è di fatta di separazioni e lacerazioni, emigrazione e rivoluzione, il “commonwealth” non è retta da omogeneità ereditarie ma da legami contrattuali tra individui e da un rapporto di ciascuno con Dio; l’utopia economica non è quella della solidarietà collettiva ma quella del coltivatore autosufficiente. Le eccezioni sono gli americani involontari, indiani e neri, che offrono grandi possibilità come “sostituiti del passato feudale, ma anche altrettanti rischi ideologici. Come insegna Washington Irving, a scavare troppo nelle radici della Nuova Inghilterra, si rischia di trovarci lo scheletro diabolico dei assacri di indiani e della tratta degli schiavi”.

Il protagonista di Atlantic city è oppresso da debiti “che nessun uomo onesto può pagare”, vende tutto ciò che possiede e compra un biglietto per il “bus che gira per le città della Costa”: sa che la “nuova” frontiera è quella che separa perdenti e vincitori, che è troppo “facile ritrovarsi dalla parte sbagliata” della strada, finisce per cedere alle scorciatoie del crimine. Tutta la storia è resa da metafore che dicono il movimento, nel brano persino la morte ha un andamento reversibile: “Tutto finisce/non si sfugge/ ma forse un giorno quello che muore/ tornerà indietro”. Il fuggiasco di State trooper è “fuga” egli stesso, e la fuga cancella sempre un’identità: l’uomo non ha  documenti che lo identifichino ( “patente, libretto, non ho niente/ ho solo la certezza di quello che ho combinato”), non ha una famiglia e non ha figli, è definito attraverso una serie di negazioni, non ha nulla che possa servire ad radicarlo, ad individuarlo, letteralmente a dargli un nome, un’identità. Mentre taglia la notte “bagnata” - alla quale assomiglia fin troppo – con la sua auto, tra le luci lunari della raffineria e i fiumi “neri”, supplica: “Signor poliziotto, per favore, per favore non mi fermi”. Nella fuga le cose perdono i contorni che le individuano, la corsa è uno sprofondare in territorio nel quale tutti i punti di riferimento sono saltati, fino a trasformarsi in una invocazione disperata: “Nelle prime ore del mattino/ho la mente annebbiata/ i ripetitori delle radio mi guidano verso la mia piccola/ dalle radio le stazioni di talk shows si accavallano/chiacchiere chiacchiere chiacchiere fino a farti perdere la pazienza/signor poliziotto la prego non mi fermi// Ehi qualcuno là fuori/ascoltate la mia preghiera/salvatemi da questo nulla”. 
In fuga sono gli amanti di Highway 29, che dopo avere rapinato una banca, (“una piccola banca/fu un macello/ avevo una pistola il resto puoi immaginarlo/ soldi sul pavimento/la camicia piena zeppa di sangue/ lei che piangeva/ puntammo verso il sud/ sulla highway 29”) tagliano il confine, diretti verso il Messico, una fuga che è il rovescio del viaggio di frontiera. Ancora figure dello sradicamento: l’uomo e la donna si amano in un motel prima della rapina, in un motel tornano dopo aver ucciso. Il motel è simbolo del non-radicamento, della non appartenenza a nessun luogo, è esso stesso un non-luogo. I due fuggiaschi non hanno un punto in cui radicarsi, una comunità alla quale appartenere. L’uomo dorme “il sonno dei morti”, persino il sogno gli è precluso. La fuga continua tra alberi “neri”, con il sole che li attraversa. Anche qui la morte (ancora un attraversamento, ancora un varcare il confine estremo) appare come l’unica via di scampo: “la strada era piena di vetri e benzina/lei non diceva nulla era solo un sogno/il vento entrava senza far rumore attraverso il parabrezza/tutto quello che vedevo era neve e  cielo e pini/chiusi gli occhi e correvo/chiusi gli occhi e volavo”.


L’uomo di Straight time “nell’oscurità prima della cena” sente una “fredda smania” di buttarsi oltre quella linea sottile, è stufo “di rigare diritto”. Il suo è percorso inverso rispetto agli altri protagonisti: è stato in carcere, ne è uscito. È tornato dalla sua famiglia. Se in prigione credeva di non farcela (“otto anni al fresco/ pensi proprio di morire/ ma ci si abitua a tutto/ presto o tardi diventa la tua vita”), in realtà ne ha appreso il codice di sopravvivenza. Ora è intrappolato nella casa, nella stabilità: si ferma sulla portico, sulla soglia di casa, sul limite tra il mondo di “fuori” che lo alletta, lo richiama e quello di “dentro” che invece lo soffoca: la moglie lo segue con gli la coda degli occhi mentre gioca con in bambini e l’uomo non riesce a sentirsi nient’altro che “un uomo a metà”. L’unica estrema via di fuga alla quale riesce ad accedere è il sogno, quando “poggia la testa sul cuscino e va alla deriva in terre straniere”.
Johnny 99 è finito nel giro infernale che accomuna tanti personaggi di Springsteen. Ha perso il lavoro, non riesce a trovarne un altro, è pieno di debiti, la banca ha in mano la sua vite e sta per strappargli la casa. Johnny, ubriaco, agita una pistola, finisce per sparare a un poliziotto. Compare davanti a un tribunale: gli vengono inflitti “99 anni di prigionia/ ora lo chiamano tutti Johnny 99”. L’uomo appartiene a quel mondo “dove ai semafori rossi non ci si ferma”: ancora movimento a simbolizzare la violazione della legge, ancora un violare la legge che è al tempo stesso un violare uno spazio. Spazio sociale e spazio fisico coincidono.
L’archetipo di questo tipo di personaggio lo ritroviamo in Stolen car, traccia dell’album The river. L’uomo si sposa, si sistema in “una casa oltre il confine della città”. La casa collocata ai margini della città è il materializzarsi fisico dell’esclusione, come in Darkness on the edge of town. Ma qualcosa non funziona. All’inizio l’uomo pensa che sia solo “inquietudine” che lo sospinge lontano dal cuore della donna che ama, ma poi capisce che è qualcosa di più. Nel ritornello l’uomo è al volante di una macchina rubata: ancora una volta i due simboli (del movimento: la macchina - dell’uomo che ha infranto la legge: la macchina è rubata) si associano, si rafforzano, si sommano uno all’altro. L’uomo si aspetta di essere catturato ma “non avviene mai”, e  viaggia con la paura che “in questa oscurità finirò per scomparire”. La notte nella quale il protagonista di Night si gettava inseguendo tutte le meraviglie del mondo (“corri libero e triste finché tutto quello che puoi vedere è la notte”) ora è figura dell’indistinto, del senza-forma, è lo spazio che inghiotte perché privo di riferimenti, un ventre che cancella l’identità di chi vi si rifugia. Johnny 99 si ritrova faccia a faccia con il giudice John Brown, detto l’“infame”. L’uomo che non rispetta i semafori rossi, l’uomo che giudica seduto su uno scranno. La fuga da una parte, la stabilità dall’altra. Al giudice che ordina la prigione come fine di ogni possibilità di movimento, il “povero” Johnny chiede che gli sia tramutata la pena: “Vostro onore credo proprio che dovreste mettermi a morte/se potete prendere la vita di un uomo per le idee che gli ronzano in testa/allora si risieda su quella sedia/ e ci ripensi giudice ancora una volta/lasciate che mi taglino i capelli/ e mi mettano sulla linea dell’esecuzione”. Ancora una volta la morte come estrema via di fuga. Lo stesso brano Nebraska riproduce questa dualità: l’assassino è in movimento nelle badlands, la legge, il sistema è rappresentato dalle cinghie che stringono il corpo del condannato a morte, simbolo spietato di un qualcosa che blocca, inchioda, ferma per sempre.


Anche il poliziotto in qualche modo è figura del movimento: ma si tratta di un movimento che ha una qualità diversa. Il poliziotto non si muove tagliando confini, non segue una linea retta, ma percorrendo un cerchio, si muove dentro un circuito. È un custode, il custode della legge e del territorio che percorre, ma in tondo: è l’uomo del ritorno, della stabilità, della legge.
La vicenda del sergente Joe Roberts e del suo doppio, suo fratello Frankie, un “poco di buono” in Highway patrolman è esemplare: il poliziotto si è sposato, ha messo su famiglia, è insomma figura di stabilità, del radicamento. Al fratello sono associate immagini di movimento: l’uomo viene arruolato, va in Vietnam, torna, si mette nei guai, è sempre in movimento. Ma per il poliziotto c’è una cosa che scavalca la legge stessa, la relativizza: sono i legami di sangue, perché, dice, “chi volta le spalle alla propria famiglia non è certo amico mio” e perché “non c’è niente di meglio che la vicinanza del proprio stesso sangue”. E allora quando il fratello si mette definitivamente nei guai, il poliziotto salta sulla sua macchina, si lancia all’inseguimento del fratello, corre “come un pazzo”. L’intera relazione tra i due fratelli è fatta di scambi: la donna con cui si sposa il poliziotto era contesa anche  dal fratello, il primo riesce ad evitare il Vietnam, grazie al sacrificio del fratello. Con il poliziotto solo apparentemente lanciato per acciuffare il fuggitivo, si compie l’ennesimo scambio: ora è Joe a mettere in discussione la legge. Il suo violare la legge, il suo trasgredirla è reso da questa sorta di inseguimento “finto”, rituale nella notte (ancora una “notte scura come la pece”). Le due macchine sono una dietro l’altra: ma il viaggio di una è disperato, è lanciato nella notte, non si fermerà. Il secondo è un viaggio “addomesticato”, “fittizio”, un inseguimento che è in realtà uno scortare. Non a caso il poliziotto si fermerà quando l’auto del fratello supererà il confine canadese (ancora un attraversare). Le cose ora possono ristabilirsi. Il poliziotto tornerà a essere figura di stabilità, il fratello, “poco di buono”, ad andare. Anche il poliziotto di The line è un personaggio di frontiera. Il suo lavoro è impedire ai clandestini di oltrepassare il confine. E’ un guardiano: vigila su che la frontiera rimanga sigillata. “Facevo quello che mi dicevano di fare/ tenevo la strada stirata e pulita/ la notte inseguivo le loro ombre negli arroyos e nei burroni”. Diventa amico di Bobby Ramiretz, un poliziotto di origine messicana, con dieci anni di anzianità alle spalle. Di notte insieme danno la caccia alle ombre. L’amicizia con Bobby lo spinge a vedere le cose in maniera diversa. Il collega gli dice: “rischiano di morire nel deserto e nelle montagne/danno tutto quello che hanno al racket del contrabbando/ li rimandano a casa e loro ritornano/ la fame è una cosa potente”. Finché un giorno, tra i clandestini ammassati, il poliziotto vede una donna, “capelli neri come il carbone”, con un bambino appeso al braccio. La incontrerà di nuovo in un bar. I due ballano. Sarà ora il poliziotto ad oltrepassare un’altra frontiera: quella stessa legge di cui è custode. 

Eravamo quasi giunti sulla statale
Quando la jeep di Bobby arrivò alla mia destra nella polvere
Accostai e lasciai il motore acceso

E rimasi nel suo fascio di luce

Sentii che mi muovevo
Sentii la mia pistola ferma sotto la mano
Restammo a guardarci negli occhi
Mentre lei attraversava correndo il corso d’acqua

                                              Bobby Ramirez non ha mai detto niente
Sei mesi più tardi ho lasciato il confine
Ho girovagato attraverso la Central Valley
E ho preso i lavori che riuscivo a trovare
La notte giravo per i bar della zona
E le città degli immigrati
Cercando la mia Louisa
Con i capelli neri sciolti


Se il poliziotto di The line è sulla frontiera tra la legge e la sua violazione, il condannato a morte di Dead man walkin’ è bandito – letteralmente – dalla legge, dalla comunità, sospinto in un luogo di indistinzione tra la vita e la morte: è ancora in vita ma è come se fosse già morto, non è ancora morto ma la sua vita è stata spogliata di ogni determinazione. E’ un morto in attesa. Intrappolato in questa soglia tra la vita e la morte, in un confine lungo il quale l’una e l’altra si scambiano perché diventate equivalenti, l’uomo non invoca il perdono o l’oblio: chiede di non essere cancellato, di lasciare una traccia, di essere egli stesso una traccia.

                                                       Sorella, non chiedo il perdono
I miei peccati sono tutto ciò che ho



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