La Napoli di Ermanno Rea


C’è una figura che torna ossessiva nei romanzi di Ermanno Rea e avvince la sua intera produzione in un’unica trama: è la sparizione. Sparizione nella sua forma radicale – il suicidio della giornalista Francesca Spada (ma anche del matematico Renato Caccioppoli e dello scrittore Luigi Incoronato), come resa di una donna e di una intera città in Mistero napoletano. Sparizione come dissolversi di un mondo incalzato dalla modernità ma la cui bellezza trapela inaspettata – Il Po si racconta. Sparizione come implacabile smontaggio di un’industria e del tentativo di riscatto che si è aggrumato attorno a quella esperienza (La dismissione). Sparizione volontaria nella forma di mistero, di giallo esistenziale, del professore Federico Caffè (L’ultima lezione. La solitudine di Federico Caffè scomparso e mai più ritrovato). Sparizione infine nella sua forma “ondulatoria”, nel ritmo della partenza e del ritorno, della nostalgia e del rifiuto che è il legame – tormentato – che lo scrittore vive con la sua città e la sua origine in Napoli Ferrovia.

 

(Mimmo Jodice)
 Il romanzo è un inventario di cose perdute, ha detto una volta lo stesso Rea. Ma se la narrativa dello scrittore napoletano è ogni volta cronaca - spietata - di questa sparizione, cambia il punto di vista, lo sguardo con il quale questo crollo viene osservato e raccontato. Dinanzi alla sparizione, Rea incarna la figura del narratore-cronista che si fa ora compagno di viaggio e testimone, ora indagatore di un passato informe e oscuro che in qualche modo deve essere riscattato, rischiarato. In Mistero napoletano la sparizione – il suicidio di Francesca Spada, ma anche il crollo dell’ideologia comunista a cui quella esistenza si era voluta intimamente votare - è già avvenuta. Resta il mistero che lo scrittore indaga. La vita di Francesca Spada, giornalista dell’Unità è un fascio di passioni, intricate e violente. Come intricata è la topografia di Napoli – la città porosa come la chiamò Walter Benjamin - che è il fondale inquieto nel quale si muovono le esistenze inseguite da Rea. Cosa è accaduto alla vita della protagonista di Mistero napoletano? Cosa all’intera città? Quando il destino individuale è divenuto storia opaca dell’intera città? I due piani, i due destini, si intrecciano: la sconfitta di Francesca è la sconfitta di un’intera città scippata – è la tesi di Rea – del suo futuro, complice un partito, quello comunista, che seppellì ogni istanza di rinnovamento. Il fallimento di Napoli è il fallimento di una città che viene consegnata a un tempo pietrificato, nel quale ogni possibilità di cambiamento è recisa, una città che si trovò in prima linea in una guerra fredda che eternò, in un presente perennemente bloccato, il conflitto tra i due schieramenti. “Che cosa dire se non che, al di fuori del cambiamento, non c’è salvezza possibile?” si chiede Rea. Può esserci salvezza solo nell’accadimento come evento/avvento di qualcosa che trascende il campo di forze del presente. Il narrare ha senso solo se – sembra suggerire Rea – accoglie questa eventualità dirompente, se si distende nello spazio dischiuso dalla “perdita” e dalla “salvezza”. Allora Mistero napoletano è la cronaca “di una città in cui improvvisamente, un giorno, le lancette degli orologi si bloccarono, la storia, sequestrata, cessò di respirare e gli uomini e le donne caddero vittima di una sorta di fascinazione, di un’attesa allucinata di una perdita che, non arrivando mai, soppresse la possibilità di un’etica della salvezza”.

Anche in La dismissione Rea si ritaglia il ruolo del testimone, di colui che ascolta, registra. Ma questa volta lo fa in presa diretta. Non c’è un passato da sbrogliare, come in Mistero napoletano, ma un presente da catturare. Qui la sparizione che si compie è il sacrificio delle intelligenze e di un sapere industriale, di un patrimonio di conoscenze e cultura che viene appunto dismesso, smontato. E’ la storia dell’operaio dell’Ilva di Bagnoli che mette a disposizione della dismissione, la sua febbrile inesausta incrollabile vocazione al lavoro. Una vocazione che si condensa in un impegno quotidiano, assoluto. Con Bagnoli, nel racconto di Rea, sparisce anche un’idea di città. “Noi amavamo Bagnoli – dice uno dei personaggi del libro -. Perché rappresentava mille cose insieme ma, prima di tutto, perché incarnava ai nostri occhi una salutare contro-copertina della città. Una contro-copertina che trasformava in alacrità l’indolenza, in precisione l’approssimazione, in razionalità l’irragionevolezza, in ordine il caos, in rigore la rilassatezza. L’amavamo perché introduceva in una città inquinata – la Napoli della guerra fredda, dell’abusivismo selvaggio, del contrabbando – valori inusuali: la solidarietà; l’orgoglio di chi si guadagna la vita esponendo ogni giorno il proprio torace alle temperature dell’altoforno; l’etica del lavoro; il senso della legalità…”.


In Napoli ferrovia, l’ultima prova di Rea, lo storico lascia il posto al narratore, o meglio le loro voci si fondono. Ora Rea racconta se stesso e racconta Caracas e in lui, la città. Chi è Caracas? Un personaggio estremo, ostinato ­ - come tutti quelli a quali Rea presta la sua voce – ma agli antipodi rispetto al mondo al quale è ancorato lo scrittore. Non è un intellettuale, non proviene dalla sinistra nella quale lo stesso Rea ha militato, è anche anagraficamente lontano dallo scrittore. E’ invece un ex naziskin, o almeno si professa tale, affascinato dalla figura di Mishima, invischiato in una storia d’amore che lo piega, sedotto dal richiamo dell’islam: è qualcuno che sente prepotente il richiamo di una verità assoluta che in qualche modo lo contenga. Sbalzato dalla sua oscura quotidianità, Caracas si trasforma in una sorta di Caronte che guida lo scrittore in quello spicchio di Napoli – la ferrovia – che della città è al tempo stesso un residuo di passato e un’anticipazione del futuro – la città meticcia. Tra i due circola un fluido di complicità, che a volte scorre trasparente, a volte si intorbidisce. Rea ha accesso a un mondo, grazie alla presenza di Caracas. Caracas può incontrare un passato che non ha mai conosciuto grazie a Rea. Ma Caracas rimane inafferrabile, appunto un “mistero”. Chi è veramente l’uomo che accompagna lo scrittore nel suo peregrinare? Si materializza all’improvviso, non ha una fissa dimora, gira con un coltello a serramanico (che non usa mai). Ma su questo “fondo” oscuro, irrisolto, magmatico Rea innesta una serie di “doni”: come ad esempio quello dell’ascolto. Caracas ha la devozione dell’ascoltare. Ma un istinto lo domina su tutti: la passione per gli ultimi, il rovello della condivisione, la spinta alla appartenenza ai derelitti. La natura di Caracas, scrive Rea, è quella di un “uomo appassionato di tutto ciò che è in fondo al pozzo, degli ultimi della terra, appassionato della sofferenza, dell’umiliazione, in definitiva del dolore”. La sua insomma è una “passione senza riserve per il proprio simile”. Ciò che lo macera è un “fuoco missionario”, ciò che lo anima è una “passione redentrice”. “E’ il cristo della ferrovia”, dice una voce del romanzo. Caracas conosce la sua personale caduta, nel rapporto con una donna la cui esistenza è ingoiata dalla droga. “Per Caracas ciò che non passa attraverso la carne, ciò che non la penetra come una lama, significa poco o nulla. Patire vuol dire patire nel corpo, perché lo spirito di un uomo risiede e vigila là”. Quella di Caracas è una “passione”.

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