La Cina alla conquista della Luna
Nel 1996 l’amministrazione americana guidata da Bill Clinton indicava «l’accesso allo spazio attraverso mezzi di trasporto statunitensi» come «un obiettivo strategico fondamentale per la sicurezza nazionale». Dieci anni più tardi, toccava alla squadra di Bush rincarare la dose: «La sicurezza nazionale a stelle e strisce è strettamente vincolata al controllo dello spazio». Eppure nonostante i proclami americani, la conquista dello spazio sembra avere un nuovo – incontenibile – protagonista: la Cina. Il programma spaziale di Pechino sta conoscendo una nuova epocale esplosione. Una “macchina da guerra” che erode velocemente il vantaggio competitivo degli Usa. E – come ha scritto Kevin Pollpeter per lo Strategic Studies Institute – sfida «Washington militarmente, economicamente e politicamente». Con il 2010 che segna un’ulteriore, vertiginosa accelerazione: «Non si era mai visto – nota Craig Covault su Spaceflight Now – un programma così ambizioso dai tempi della corsa spaziale degli anni Sessanta». È il 2003 l’anno che segna l’ingresso del Dragone nel novero delle potenze spaziali: la missione Shenzhou V porta il primo astronauta cinese nello spazio. Nel 2005 lo Shenzhou VI vola intorno alla Terra per cinque giorni con due astronauti a bordo. Tre anni dopo è la volta della prima “passeggiata” interstellare. In diretta tv il comandante Zhai Zhigang esce dalla navicella Shenzhou VII in orbita a 343 chilometri dalla terra. Con in mano la bandiera nazionale. Per i cinesi è un’ubriacatura di orgoglio patriottico ma anche un’esibizione muscolare, di grandeur simile a quella avvenuta – anche questa in mondovisione – con l’inaugurazione delle Olimpiadi.
Ma l’esaltazione generale nasconde anche un’ondata di nazionalismo, tanto che il presidente cinese Hu Jintao decide di rassicurare il mondo, affermando che «gli scopi della nostre missioni sono pacifici». Ma nessuno a Pechino si nasconde che la strategia del Dragone – sia essa giocata in campo politico, economico, spaziale o militare – ha un unico filo conduttore: riconquistare nello scacchiere internazionale l’antica posizione di Paese di Mezzo, ridicolizzata durante il “Secolo dell’umiliazione”. La passeggiata stellare non ha di certo “acquietato” le ambizioni di Pechino. Entro la fine del 2010 sarà lanciata la seconda sonda lunare, Chang’e-2 (la prima ha esaurito il suo viaggio attorno al satellite nel marzo 2008), che precede il lancio della terza programmata per il 2017. Come ha spiegato al 'China Daily' Ye Peijian, progettista capo di Chang’e-1, la sonda volerà a un’orbita di cento chilometri dalla superficie lunare. L’obiettivo della Cina è la costruzione di una stazione spaziale orbitante: secondo l’agenzia di stato Xinhua, sarà completata entro il 2020. E, soprattutto, un nuovo atterraggio – dopo quello americano del 1969 – sulla Luna per 2013. Per la Cina non si tratta solo di nuove “passeggiate” lunari e della conquista del potenziale emblematico che l’attracco sulla luna conserva. I cinesi dalla loro avventure celesti si aspettano più dei risultati – solo simbolici – ottenuti dagli americani. Come ha dichiarato Ye Zili della Società di scienza spaziale cinese, «non vogliamo solo raccogliere un pezzo di roccia». La finalità dichiarata è lo sfruttamento di nuove potenziali fonti di energia, come l’elio-3. Non solo, come ha scritto 'Newsweek', la Cina punta ad arrivare in una posizione di forza quando gli Stati Uniti vorranno scrivere le norme che disciplineranno il futuristico ma sempre più probabile sfruttamento di risorse nello spazio. Il regime insomma non vuole un ruolo da comprimario, ma sedere al tavolo dei protagonisti. Ma la Luna (e il suo possibile utilizzo a scopi economici) è solo un tassello di una strategia spaziale ben più ampia. Sono stati lanciati recentemente i vettori Long March 4-B e Long March 3-C, il satellite Shijian XI-01. La Cina si sta dotando di un nuovo centro per il lancio di satelliti: una volta ultimato (entro il 2013), sarà la quarta struttura a disposizione del progetto spaziale cinese. La corsa allo spazio vela ben altre ambizioni. L’allarme generale Lnegli Usa è suonato quando Pechino ha testato, nel 2007, un missile antisatellite (Asat). Un salto di qualità non indifferente: un missile balistico ha colpito un vecchio satellite meteo. Alle protesta Usa – l’esperimento fu condotto in totale segretezza – i cinesi opposero che si trattativa di «un’operazione non indirizzata contro nessun nemico».
D’altronde il diaframma che separa programmi civili da quelli con connotazioni militari è molto sottile. Pechino non solo può distruggere satelliti altrui, ma ne lancia sempre più di propri. Il Dragone prevede di spedire in orbita, secondo la stima di Michael Griffin, amministratore Nasa ai tempi della presidenza Bush, «circa cento satelliti nei prossimi cinque-otto anni». Passi da gigante sono stati fatti nella tecnologia satellitare, puntando tutto sui nano-satelliti, “giocattoli” ad altissimo contenuto tecnologico che per le loro ridotte proporzioni possono sfuggire alle armi spaziali. I nano-satelliti sono emblematici delle ambiguità della politica spaziale cinese: essi posso essere usati, come ha detto alla Bbc la fisica Laura Grego, «per agganciare altri veicoli spaziali, per ripararli o per sabotarli. E distruggerli». Per capire la rilevanza strategica di questa tecnologia bastano le considerazioni di Alan W. Dowd, apparse sulla rivista dell’istituto Hoover. Il primo attacco sferrato contro al-Qaeda dagli Usa è stato fatto con missili da crociera a guida satellitare. Da allora, i piloti statunitensi utilizzano le Joint-Direct Attack Munitions (Jdam), munizioni che ricevono continuamente i dati provenienti dai satelliti per agganciare e distruggere obiettivi in qualsiasi condizione atmosferica, grazie proprio alla sofisticazione e alla potenza della tecnologia Gps. Allo stesso modo, il drone Predator (i velivoli senza pilota utilizzati nella guerra in Pakistan) trasmette immagini e informazioni via satellite a centri di comando lontani. E così via.
Insomma le guerre del nuovo millennio si combatteranno anche e soprattutto nello spazio, grazie proprio alle informazioni continuamente inviate dai satelliti. E qui che Pechino vuole colmare il suo divario. Secondo gli Usa, gli scienziati cinesi stanno elaborando un programma per limitare o impedire l’uso delle capacità spaziali ai suoi potenziali avversari in un eventuale scenario di crisi o di conflitto. Oscurare la tecnologia (e le comunicazioni) di un nemico, darebbe un vantaggio formidabile in caso di una nuova guerra. C’è una sorta di “Grande muraglia”, un muro impenetrabile di segretezza, che sembra avvolgere le spese – militari e spaziali – cinesi. uanto spende Pechino per la conquista dello spazio? Il budget non viene pubblicato e, come ha scritto Giovanni Andornino, «la prima difficoltà contro cui si scontra ogni studioso di affari militari cinesi è di carattere metodologico ed è la più basilare che ci sia: mancano i dati». Siamo insomma dinanzi a un sistema di “scatole cinesi”. Tuttavia Space Foundation, sito specializzato in guerre stellari, ha azzardato una stima: la spesa oscillerebbe tra un miliardo e un miliardo e mezzo di euro. Non manca chi sostiene che essa raggiungerebbe la cifra astronomica di quasi due miliardi e mezzo di euro. La spesa spaziale è solo un capitolo di un dossier ben più ampio. Secondo il Pentagono, Pechino destina all’intero comparto militare una cifra annuale che oscilla tra gli ottanta e i centodieci miliardi di euro. Per gli analisti, nel periodo 2011-2020 la Cina lavorerà per rendere le sue forze armate capaci di vincere una guerra in un contesto di totale informatizzazione. Come scrive – significativamente – la rivista 'Foreign Policy', «non è il momento della paura. Non ancora».
(Avvenire 26-4-2010)
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