La prossima guerra cinese
La domanda è inquietante: quanti anni ci separano da una guerra in cui sia coinvolta la Cina? Venti, cinquanta, cento? La strepitosa ascesa economica di Pechino – che ha appena scalzato il Giappone dal gradino di seconda economia al mondo e che si appresta a insidiare persino la leaderschip americana – quando si “tradurrà” in un’azione militare? L’esercito cinese – che continua a fare progressi impressionanti in quanto a nuovi armamenti, dal test del primo bombardiere invisibile, il J-20 al missile balistico anti-nave Dongfeng 21, all’imminente varo della prima portaerei – quando vorrà “sperimentarsi” sul campo? Quando insomma sarà chiamato a un intervento di “polizia locale”, secondo lo stesso modello che ha spinto l’America ad agire in vari teatri regionali?
Le dichiarazioni ufficiali di Pechino sono rassicuranti: la Cina non attaccherà mai per prima, un’eventuale azione non avrebbe che carattere difensivo. Come si legge nel Libro bianco sulla difesa 2008 (China’s National defense in 2008) “la Cina persegue una politica di difesa nazionale puramente di natura difensiva. La Cina pone la tutela della sovranità nazionale, la sicurezza, l'integrità territoriale, la tutela degli interessi dello sviluppo nazionale, e gli interessi del popolo cinese di sopra di tutto”. Questa l’ufficialità, la dottrina del peaceful rise. E uscendo dall’ufficialità? Nessuno pensa a uno scontro aperto con gli Usa, nonostante la miccia Taiwan. Secondo il rapporto 2010 del Pentagono al Congresso Usa, la Cina mira ad impedire l’accesso di terzi (leggi gli Stati Uniti) in una eventuale crisi regionale. Il generale cinese Luo Yuan dell’Academy of Military Sciences, quando era in corso la maxi esercitazione congiunta tra Usa e Corea del Sud, è andato diritto al sodo: “perché dovremmo consentire a un estraneo di addormentarsi nella nostra camera da letto?”
Resta il fatto, comunque la si veda, che il potere economico cinese non può che tradursi in una crescita di forza politica. Un potere politico che a sua volta deve tutelare le criticità-vulnerabilità dell’economia da cui si alimenta. Un nodo nel quale si saldano velleità economiche e rivendicazioni territoriali. Come spiega Steve Tsang della Oxford University “dichiarando che il Mar cinese meridionale è un “interesse centrale” nazionale ed elevandolo allo stesso status di Tibet e Taiwan, Pechino ha di fatto fissato marcato un altro territorio”. Le criticità stanno tutto negli appetiti energetici della Cina e della vulnerabilità delle rotte marine attraverso le quali viaggia il combustibile destinato a far bruciare le industrie cinese. Nel 2008 la Cina ha importato il 56 per cento del suo petrolio e si stima che ne importerà circa i due terzi entro il 2015 e quattro quinti entro il 2030. Sensibili gli interessi anche delle altre potenze regionali: l'80 per cento del greggio destinato a Giappone, Corea del Sud e Taiwan passa attraverso il Mar meridionale cinese. Il Mar orientale cinese custodirebbe poi circa 7 miliardi di metri cubi di gas naturale e fino a 100 miliardi di barili di petrolio.
Gli appetiti cinesi scatenano anche quelli dei vicini. Come ha scritto Alberto Simoni su Risiko “la corsa agli armamenti ha un nuovo indirizzo: Sud Est asiatico. Dall'Indonesia a Singapore, dalla Thailandia alla Malaysia, la frenesia per gli acquisti militari è contagiosa, ed evidentemente, non casuale. Giakarta ha appena speso 300 milioni di dollari per sei jet russi; la Thailandia ha ricevuto dall'Ucraina 96 veicoli corazzati (conto di 125 milioni), mentre Singapore presto battezzerà il suo secondo sottomarino d'attacco (128 milioni di dollari)”. Persino la pacifica Australia ha avviato una massiccia acquisizione di armamenti, che include – secondo il Military Balance 2010 dell'International Institute for Strategic Studies – il raddoppio del numero di sottomarini e il varo di otto nuove fregate. Il conto alla rovescia è partito.
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