Tibet, la repressione continua

A febbraio Barack Obama gli aprì le porte della Casa Bianca (ma non dello Studio ovale), tanto da attirarsi gli strali di Pechino. Due giorni fa il presidente Usa ha lanciato un nuovo richiamo alla Cina perché preservi «l’identità religiosa del popolo tibetano» e riattivi il «dialogo con il Dalai Lama». Ma per Pechino il leader religioso tibetano resta un nemico, il capo «di una cricca» che vuole lo smembramento del Dragone e che attenta all’unità territoriale, vero dogma della politica cinese. Ma archiviata la “rivolta” del 2008, cosa sta accadendo oggi in Tibet?

«La violazione dei diritti umani a Lhasa – ci spiega l’analista indiano Bahukutumbi Raman – continua. È in atto un sistematico tentativo di sopprimere la devozione e il rispetto per “Sua Santità”, il Dalai Lama. È un crimine anche solo possedere una sua foto. Per intimidire la popolazione e prevenire eventuali nuove rivolte, gli arresti dei tibetani sospettati di simpatie per il Dalai Lama e di essere critici verso le politiche di Pechino vengono eseguite periodicamente. Con il pretesto di una campagna contro il separatismo. Ma nonostante questo, la sfida dei tibetani continua».



Qual è allora l’obiettivo finale di Pechino? Il Dragone – spiega ancora Raman – non punta tanto a distruggere il buddismo in sé. Piuttosto «i cinesi stanno cercando di creare un nuovo buddismo in Tibet, che rompa completamente con le credenze e le tradizioni del vero buddismo tibetano. Buddismo sì, buddismo tibetano no: è questo il vero obiettivo cinese». Secondo il rapporto sui diritti umani appena pubblicato dal Tibetan Centre for Human Rights and Democracy, la scure cinese si è abbattuta su intellettuali e prigionieri politici. Sarebbero 831 quelli detenuti: di questi solo 360 sono stati condannati da un tribunale.
(Pubblicato su Avvenire 21/1/2011)

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