Il nucleare e i limiti della natura

L’incidente nucleare che sta flagellando il Giappone ripropone in tutta la sua drammaticità il problema dei limiti dell’azione dell’uomo dinanzi alla natura. Il Novecento è stato tagliato internamente dal nodo della tecnica, investendo temi cruciali: dalla sopravvivenza della specie umana, alla ridefinizione di ciò che è umano e ciò che è naturale, ai processi di artificializzazione. Come ha avvertito Gunther Anders è il concetto stesso di umano a subire una progressiva erosione. L’uomo è detronizzato e il suo posto è stato occupato da altro. Scrive Anders “Abbiamo rinunciato a considerare noi stessi come i soggetti della storia, e al nostro posto abbiamo collocato altri soggetti della storia: anzi un solo altro soggetto: la tecnica. Dal suo corso, infatti, e dal suo impiego dipende l’essere o il non essere dell’umanità”.

La natura oggi non solo è penetrata nei suoi segreti ma progressivamente violata, manipolata. Ne deriva quella che Hans Jonas chiama «la più grande sfida mai venuta all’essere umano dal suo stesso agire»: la custodia della natura stessa, la conservazione del «già-sempre», l’istituzione di una responsabilità non confinata al solo esistente ma in qualche modo estesa al futuro. Il rovesciamento di orizzonte rispetto all’antichità è radicale. In causa è chiamato quell’ordine divino e sempiterno che i Greci chiamano kosmos e i romani mundus, quell’ordine che “che si spegne e si accende secondo giusta misura” (Eraclito), che è “immortale e indistruttibile” per Aristotele. La rottura si consuma con l’affermazione del Moderno. Come ha notato Orlando Franceschelli  il cosmo scade a semplice, meccanica res extensa, a oggettività “senza vita e senza spirito”. Con Cartesio ci troviamo di fronte a una “fisica senza physis” (Lowith), a un cosmo che, da realtà “massima e somma” è diventato semplicemente un mondo “esteso” nello spazio. In questo contesto muta radicalmente l’azione umana, i criteri che la definiscono e i limiti che la trattengono. La divaricazione tra l’azione così come si delineava nel mondo antico e l’azione come la pratichiamo oggi è netta. Se la prima è letteralmente impotente, destinata a naufragare dinanzi a un limite invalicabile – «la sostanziale immutabilità della natura in quanto ordine cosmico» –, la seconda è ormai capace di sfondare quell’argine. Il quadro rispetto all’antichità è rovesciato. Se per l’uomo antico, come scrive Jonas, «il permanente era la natura, il mutevole erano le sue opere», oggi è la natura stessa ad essere entrata in una condizione di mutevolezza, di «vulnerabilità», perché disponibile alla manipolazione dell’uomo. Si compie così un lungo processo che plasma il nostro tempo: la natura da ordine immutabile scade a materia manipolabile, a cosalità muta, «a insieme organizzato di forze calcolabili» (Heidegger). L’azione non è più ancorata alla prossimità e alla simultaneità, ma acquista un carattere nuovo: è illimitata, irreversibile.

Proprio a Heidegger si deve un profondo ri-pensamento della tecnica e della sua essenza. “La tecnica non è semplicemente un mezzo. La tecnica è un modo del disvelamento. La tecnica dispiega il suo essere nell’ambito in cui accadono disvelare e disvelatezza”. Quale è allora lo spazio che si apre tra la fisica antica e quella moderna? “Il disvelamento che vige nella tecnica moderna è una pro-vocazione la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata. La moderna scienza esatta della natura. Il suo modo di rappresentazione cerca di afferrare la natura come un insieme organizzato di forze calcolabili". Ma c’è anche un altro modo di pensare la tecnica. Arnold Gehlen propone un sovvertimento dell’umano. L’uomo è “un essere manchevole”, è privo di quella dotazione istintuale che gli consenta di aderire perfettamente all’ambiente (come avviene per l’animale), è “un problema biologico particolare”. Scrive Gehlen: “L’uomo è organicamente l’essere manchevole”: egli sarebbe inadatto alla vita in ogni ambiente naturale e così deve crearsi una seconda natura, un mondo di rimpiazzo, approntato artificialmente e a lui adatto, che possa cooperare con il suo deficiente equipaggiamento organico. Si può dire che è costretto biologicamente al dominio sulla natura”. La tecnica non è allora qualcosa che si aggiunge dall’esterno di ma “è insita già nell’essenza stessa dell’uomo”.

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