Searle e l'enigma mente-corpo
di Luca Torre
Il volume pubblicato dalla Rosenberg & Sellier Coscienza, linguaggio, società raccoglie le lezioni del filosofo americano J. Searle alla Scuola di Alta Formazione Filosofica di Torino. Il testo presenta diversi punti di interesse sia perché consente di conoscere gli sviluppi della riflessione filosofica dell’autore di Atti linguistici - ora incentrata sulla dimensione sociale e in particolare sulla sua ontologia analizzata nei termini delle Funzioni di Status riconducibili a quei particolari tipi di atti linguistici che sono i performativi (cap. 3) – sia perché presenta una proposta seria e attraente, se coerente, riguardo alla collocazione della coscienza e della mente all’interno del mondo naturale affrontando il tradizionale problema mente/corpo e, soprattutto, quello dell’intenzionalità (cap. 2). Ritengo, infatti, che l’importanza della proposta di Searle possa essere correttamente valutata solo se confrontata (ponendola in correlazione dialettica per così dire) con le difficoltà cui vanno incontro le semantiche naturalizzate per gli stati mentali (quindi con differenti resoconti naturalistici dell’intenzionalità). In questo breve scritto mi concentrerò soprattutto su un punto specifico (debole) della analisi di Searle, lasciando in ombra il punto di forza del suo lavoro, il trattamento dell’intenzionalità (sulla falsariga della teoria degli atti linguistici e delle loro direzioni di adeguamento).
Il volume pubblicato dalla Rosenberg & Sellier Coscienza, linguaggio, società raccoglie le lezioni del filosofo americano J. Searle alla Scuola di Alta Formazione Filosofica di Torino. Il testo presenta diversi punti di interesse sia perché consente di conoscere gli sviluppi della riflessione filosofica dell’autore di Atti linguistici - ora incentrata sulla dimensione sociale e in particolare sulla sua ontologia analizzata nei termini delle Funzioni di Status riconducibili a quei particolari tipi di atti linguistici che sono i performativi (cap. 3) – sia perché presenta una proposta seria e attraente, se coerente, riguardo alla collocazione della coscienza e della mente all’interno del mondo naturale affrontando il tradizionale problema mente/corpo e, soprattutto, quello dell’intenzionalità (cap. 2). Ritengo, infatti, che l’importanza della proposta di Searle possa essere correttamente valutata solo se confrontata (ponendola in correlazione dialettica per così dire) con le difficoltà cui vanno incontro le semantiche naturalizzate per gli stati mentali (quindi con differenti resoconti naturalistici dell’intenzionalità). In questo breve scritto mi concentrerò soprattutto su un punto specifico (debole) della analisi di Searle, lasciando in ombra il punto di forza del suo lavoro, il trattamento dell’intenzionalità (sulla falsariga della teoria degli atti linguistici e delle loro direzioni di adeguamento).
Un limite, o almeno quello che mi pare tale, è costituito dal modo in cui viene risolto il tradizionale problema mente/corpo (cap. 1). Searle sostiene correttamente che la coscienza (e la mente) costituisca un dominio irriducibile a qualsiasi altro aspetto, ritenuto più fondamentale, della realtà (naturale) (p. 23). E nello stesso tempo che ciò non implica necessariamente qualche bizzarria ontologica (come il dualismo cartesiano). La coscienza (e la mente) è irriducibile, agisce pure causalmente (pp. 23 e segg.) ma senza violare l’ordine naturale, per così dire. Com’è possibile ciò? Sembrerebbe che le assunzioni di Searle debbano scontrarsi con il problema della chiusura causale del mondo fisico (pp. 26-27): se la coscienza (e la mente) è irriducibile e agisce causalmente allora il semplice fatto che io stia digitando i tasti del mio pc avrebbe non solo una pluralità di cause, ma tra queste anche una causa non fisica (non naturale). Io infatti voglio scrivere un articolo, un caso paradigmatico di atto mentale, e lo scrivo digitando i tasti. Ora, se il mentale costituisce un dominio a sé qui noi abbiamo due cause dello stesso fenomeno, la decisione di scrivere l’articolo e i processi fisiologici e fisici, come la secrezione dell’acetilcolina (il neurotrasmettitore caro a Searle), che producono la digitazione. Ma se i processi fisiologici sono sufficienti a spiegare il tutto, che ruolo gioca la causa non fisica? Sembrerebbe una quinta ruota. Se, al contrario, i processi fisiologici non bastano a spiegare il tutto e si deve fare riferimento a un fatto mentale, allora si deve affrontare la questione, intrattabile, relativa al modo in cui una causa non fisica possa agire su elementi fisici (il problema irrisolto di Cartesio). Il riduzionismo materialistico nelle sue diverse forme e l’epifenomenismo riguardo al mentale sono motivati dalla necessità di risolvere questo problema. Searle però ritiene che le sue assunzioni non comportino necessariamente l’accettazione del dualismo. L’idea è che, sebbene irriducibile, la coscienza (e la mente) sia causata e realizzata (pp. 25 e 52) da processi neurali. Lo stesso fenomeno è descrivibile in duplice modo: a livello neurobiologico e a livello mentale; ma non si è in presenza di due fatti diversi (pp. 52-53). Come lo stato solido dei tavoli e quello liquido dell’acqua sono determinati dai loro microelementi (senza porre speciali questioni ontologiche) così il mentale è determinato da elementi e processi neurobiologici. Il problema è risolto. Ma lo è davvero?
Mi pare infatti che possa sorgere qualche problema con il modo in cui Searle spiega la relazione tra il livello mentale e quello neurobiologico: egli infatti sostiene che la coscienza (e il mentale) siano causati e realizzati da processi neurali. A me sembra che le due nozioni non siano sinonime e, anzi, abbiano implicazioni molto diverse tra loro.
Mi pare infatti che possa sorgere qualche problema con il modo in cui Searle spiega la relazione tra il livello mentale e quello neurobiologico: egli infatti sostiene che la coscienza (e il mentale) siano causati e realizzati da processi neurali. A me sembra che le due nozioni non siano sinonime e, anzi, abbiano implicazioni molto diverse tra loro.
A pag. 52, dove Searle afferma che i neuroni eccitati “causano e realizzano” gli eventi mentali, viene riportato anche un diagramma (poi sostituito da un altro, come vedremo) che dovrebbe chiarire le relazioni tra i due livelli di descrizione e che riesce utile per chiarire la mia difficoltà:
Come si può vedere, le frecce che vanno dal basso verso l’alto, dal livello neurale a quello mentale, da Searle vengono accompagnate indifferentemente dalle lettere C/R che stanno rispettivamente per “causare” e “realizzare”. Le frecce che vanno da sinistra a destra invece esemplificano rispettivamente il passaggio da un processo neurale a un altro fisiologico (in basso) e da un evento mentale, una intenzione nel caso specifico, a un movimento corporeo (in alto). Successivamente, egli spiega che questo diagramma potrebbe generare qualche confusione, suggerendo l’idea sbagliata che vi siano due differenti catene causali all’opera resuscitando il dualismo con tutti i suoi problemi, e per questa ragione lo sostituisce con un altro che riporto di seguito.
Searle, quindi, afferma quanto segue:
Si pensi dunque all’intero sistema come composto da neuroni (o da qualunque entità funzionale minima venga stabilita dalla neurobiologia, ad esempio da mappe neurali), qui rappresentati dai cerchi. L’intero sistema si trova nello stato cosciente nello stesso modo in cui l’acqua in un bicchiere si trova nello stato liquido o il tavolo si trova allo stato solido, e possiamo avere una spiegazione causale di questo stato. L’area colorata all’interno del sistema ha proprio la funzione di rendere il fatto che è l’intero sistema a essere cosciente. (p. 53)
Prima di procedere, mi preme sottolineare un aspetto, che mi servirà in seguito, e che è questo: quale che sia il diagramma a cui facciamo riferimento, è chiaro che il passaggio, nel tempo, da t1 a t2 (nel secondo diagramma, ma il punto è implicito anche nel primo), da uno stato mentale a un altro stato mentale o anche un movimento corporeo si accompagna (deve accompagnarsi – menziono incidentalmente la questione modale senza tematizzarla) perché ne dipende, secondo Searle, a un mutamento al livello neurale e fisiologico sottostante. E veniamo alla mia difficoltà.
A) La relazione causale sussiste tra due fatti, due fenomeni; ma qui Searle ci ha detto che ci troviamo di fronte a un solo fatto descrivibile a due diversi livelli. Com’è possibile una relazione causale in questo caso (che le frecce dal basso verso l’alto indichino una relazione causale)? Il problema viene sollevato dallo stesso Searle (pp. 544-45 di S. Guttenplan (ed.), A companion to the philosophy of mind, Blackwell, 1994) che però risponde dicendo che si tratta di un fenomeno abbastanza comune in natura e cita la liquidità dell’acqua ecc. Ora, il punto non è se il fenomeno sia o meno comune, ma come lo dobbiamo concepire e spiegare (il problema cioè riguarda eventualmente anche la liquidità dell’acqua e come questa è correlata ai suoi microelementi). B) La relazione causale, inoltre, implica che tra causa ed effetto intercorra un certo lasso di tempo. Ma se i neuroni causano la coscienza e il mentale, allora ci sarà un ritardo temporale (sistematico) tra gli uni e l’altra (una osservazione simile, ma in relazione a un contesto totalmente differente, viene fatta da Jaegwon Kim in Supervenience and mind, Cambridge University Press, 1993). Ancora una volta: come si può allora sostenere che vi sia un solo fenomeno all’opera qua? Infine, non dovrebbe esserci un problema di sincronizzazione, per così dire, tra i due livelli con ripercussioni sulla spiegazione del comportamento del soggetto nell’ambiente in cui si trova?
Dire, invece, che i neuroni realizzano coscienza e mentale mi pare che vada in una direzione completamente differente rispetto alla causalità; forse nella direzione giusta, ma, comunque, incompatibile con la causalità. Ragion per cui non si possono unire le due relazioni come fa Searle. Se capisco bene, è come dire che la coscienza e il mentale sono costituiti dai neuroni, pur essendo possibile distinguere diversi livelli di descrizione di essi e del loro comportamento. Se si verifica un mutamento al livello sottostante (si considerino i due diagrammi), allora si verifica (si deve verificare) un mutamento al livello superiore, quello mentale. Un caso analogo a questo (e alla liquidità dell’acqua) mi pare quello delle proprietà morali, dei fatti morali. X punta la pistola contro Y che odia fortemente e spara, uccidendolo. Lo stesso fatto è descrivibile a livelli differenti: fisico, balistico; ma a questo livello non c’è traccia dell’omicidio inteso come fatto morale. E morale: descrivo X come un assassino meritevole di punizione, l’azione da lui commessa come fortemente riprovevole ecc. senza con questo implicare che le proprietà morali siano sganciate ontologicamente dagli aspetti naturali della medesima situazione. Per spiegare la relazione tra i due ambiti e neutralizzare le preoccupazioni ontologiche alcuni filosofi utilizzano la nozione di sopravvenienza (si veda a questo proposito il già citato J. Kim, Supervenience and mind). In maniera informale e sintetica tale relazione afferma che le medesime circostanze (non morali) devono realizzare le stesse proprietà morali (e quindi giudizi morali). Se le circostanze da me descritte sopra costituiscono un omicidio, allora qualsiasi altra circostanza analoga, a prescindere da chi siano X e Y coinvolti, costituisce un caso di omicidio (si badi che non si tratta del requisito morale che casi analoghi devono essere giudicati in maniera analoga, anche se è ovviamente collegato). (Una analisi approfondita richiederebbe il riferimento ad altre questioni, come quella modale, e distinzioni, come quella tra sopravvenienza debole e forte ecc.; ma in questa sede può bastare quanto appena detto.) Perché la sopravvenienza neutralizza qualsiasi preoccupazione ontologica? In prima battuta la sopravvenienza stabilisce semplicemente la covarianza degli eventi: se muta qualcosa al livello non morale, allora muta la proprietà morale realizzata. Ma se vi è covarianza (e qui entrerebbe in gioco la questione modale), allora la relazione stabilisce anche la dipendenza (ontologica) del fatto o proprietà sopravveniente (morale nel nostro caso) dalla sua base. Se quando non vi è la base o essa muta, non vi è nemmeno il fatto sopravveniente, allora quest’ultimo dipende dal primo, ma non in maniera causale – anche perché non vi è nessun ritardo temporale qui (l’omicidio del mio esempio è simultaneo al - perché è la stessa cosa del - fatto che X spari a Y odiandolo ecc.)
Ora, se la realizzazione di cui parla Searle è la stessa cosa della relazione di sopravvenienza, e da quello che abbiamo visto sopra non dovrebbero esserci molti dubbi, allora, è chiaro che è incompatibile con la causalità (per cui non si può dire che i neuroni “causano e realizzano” la coscienza). Se concepiamo la relazione tra la coscienza (e il mentale) in termini di sopravvenienza o realizzazione, infatti, che lo stesso evento sia soggetto a due diverse descrizioni non crea nessuna difficoltà. Anche perché la sopravvenienza non implica nessun gap temporale tra la base e il fatto sopravveniente. Concludendo resta solo da chiedersi perché Searle abbia messo insieme due cose così diverse e perché non abbia scelto la realizzazione. E la domanda è tanto più pertinente se si considera ciò che agli dice in altri luoghi del testo a proposito della realizzazione di quegli stati mentali che sono le intenzioni (cap. 2 p. 91).
se la mente sopravviene al livello fisico allora è un epifenomeno?
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