Asia, incubo prezzi

Il vento del Maghreb potrebbe raggiungere anche l'Asia? Il contagio è in grado di scavalcare distanze geografiche, differenze culturali e regimi politici per alimentare nuove forme di ribellioni? Una cosa è
certa: uno degli elementi - esplosivi - che hanno covato a lungo sotto la rivolta nordafricana sta diventando "endemico" anche in Asia: è l'aumento dei prezzi alimentari. Un boom che sta colpendo con forza diversi Paesi. Secondo la Banca Mondiale l'indice dei prezzi alimentari è aumentato del 15% tra la fine del 2010 e gennaio di quest'anno, un balzo inferiore solo di tre punti rispetto al drammatico picco toccato nel 2008. Gli ultimi sei mesi hanno registrato un forte aumento dei prezzi di grano, mais, zucchero e riso.

Un mix incendiario che ha ricacciato, secondo il World bank food price watch, 44 milioni di persone al di sotto della soglia di povertà. È soprattutto la corsa del grano a spaventare: tra il giugno dicembre 2010, il prezzo del grano è aumentato in Bangladesh (45%), Mongolia (33%), Sri Lanka (31%), Afghanistan (19%), Pakistan (16%). Il prezzo del riso è esploso in Vietnam (46%) Indonesia (19%), Bangladesh (19%), Sri Lanka (12%) e Cina (9%). Come segnalato dal Wall Street journal a Singapore i prezzi al consumo sono aumentati a gennaio del 5,5%. L'inflazione a Hong Kong è stata del 2,4% nel 2010 ma le autorità si aspettano una brusca accelerazione al 4,5%. In Vietnam il balzo è stato del 12,31%. Proprio in Vietnam potrebbe concretizzarsi lo scenario più temuto dai regimi asiatici: il saldarsi delle proteste sui prezzi alle rivendicazioni sui diritti umani. Ieri il regime vietnamita ha arrestato Nguyen Dan Que, un attivista che ha passato 20 anni in carcere. La sua colpa? Aver auspicato una "rivolta maghrebina".

Sono soprattutto i due giganti asiatici - India e Cina - a essere otto i riflettori. L'inflazione alimentare a New Delhi è salita alle stelle in dicembre: più 18%. E la risposta della piazza non si è fatta attendere. Più di 200mila persone sono scese in strada per protestare contro gli aumenti. I dimostranti hanno
sfilato in corteo dalla periferia di Nuova Delhi sino al Parlamento, nel cuore della città. Il governo prova a correre ai ripari, puntando a un aumento degli aiuti alimentari ai poveri a quota 30 miliardi di dollari. Gli occhi sono puntati poi sulla Cina. Qualche timida avvisaglia "popolare" si è già sperimentata. Altrettanto pronta è stata la risposa di Pechino. Che ha mandato la polizia per strada. Ieri Pechino ha fatto marcia indietro sulla libertà di movimento della stampa straniera nel Paese, reintroducendo severe regole alle quali i giornalisti si dovranno attenere non solo in situazioni di permanente tensione come il Tibet, ma anche nel centro di Shanghai e di Pechino. Il Dragone non nasconde le sue paure. Il premier Wen Jiabao ha detto senza mezze misure che è l'inflazione il vero nemico da combattere. A gennaio l'indice dei prezzi al consumo è cresciuto del 4,9% rispetto allo stesso mese dell'anno scorso, una nuova impennata dopo il +4,6% di dicembre. La stessa crescita programmata sarà raffreddata per evitare squilibri troppo profondi. A spaventare Pechino è un vecchio "demone" che continua a strisciare sotto la sua pelle: le rivolte popolari.
Come ha scritto l'analista indiano Prem Shankar Jha «nel gennaio 2006 - prima che Pechino oscurasse i dati - i media cinesi riferirono che il numero di turbative dell'ordine pubblico era salito da 74mila nel 2004 a 87 mila nel 2005. Dieci volte il numero degli incidenti registrati nel 1993». Nel 2007 le sommosse erano arrivate a quota 90mila. Una delle cause delle rivolte? La fiammata sui prezzi.                                               

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