General Motors "risorge" in Cina

Su di esso dovranno esercitarsi i «sismografi» del futuro. Perché una cosa è certa: nel caso General Motors c'è una traccia di come sarà la geografia (industriale ed economica) mondiale e, al tempo stesso, un'archeologia di quella che è stata la globalizzazione. Nella partita sono coinvolti i due attori che oggi si contendono la scena mondiale: gli Stati Uniti, con quella che è stata dal 1932 al 2007 la prima casa produttrice di automobili al mondo - Gm appunto -, detronizzata nel biennio nero 2008-2009 e tornata poi in cima nello scorso semestre di quest'anno (4.536 milioni di vetture, più 8,9% rispetto al 2010). Dall'altro la Cina, oggi il primo mercato al mondo di automobili (nel 2000 vi si producevano 640mila unità, nel 2010 undici milioni). Ma la vicenda è anche qualcosa che complica i luoghi comuni ai quali siamo abituati: la concorrenza cinese può affossare ma anche essere una strepitosa occasione (ma fino a quando? E in che modo?).
I dati. Primo: nel 2009 Gm è a un passo dal baratro (e dalla nazionalizzazione). Secondo: nel 2011 potrebbero arrivare a quota due milioni le quattro ruote piazzate sul mercato cinese. Terzo: a settembre Gm ha venduto più auto nel Dragone che a casa propria. E la forbice è destinata ad allargarsi. L'exploit è raccontato in un libro, scritto da Michael J. Dunne, che ha un titolo emblematico: Ruote americane, strade cinesi (American wheels, chinese roads: the story of General Motors in China). La fortuna comincia a girare per Gm in Cina nel 1993, dopo un avvio tutt'altro che strepitoso. La svolta si nasconde in una sigla: Saic (Shanghai automobile industry corp, fatturato di 17 miliardi di dollari nel 2010). La Saic avvicina Gm, mentre tratta anche con Ford. In tasca è già pronto un piano per costruire auto di lusso, il tutto sotto la (sorniona) regia del partito. Come scrive Dunne, i cinesi sanno come usare armi letali. Recapitano un messaggio-trappola a Detroit: l'accordo con Ford è quasi concluso. In quel "quasi" Gm si butta a capofitto. L'accordo (vero) viene firmato nel '97, nel '99 viene prodotta la prima vettura.
Non sono pochi però i rischi di nuovi scivolamenti. Nel mercato cinese sono 50 le case produttrici mondiali a battersi per la torta. E, come scrive Dunne, gli americani sono da sempre impegnanti in un raffinato e (faticoso) equilibrismo per contenere le mire dei cinesi. Che in sintesi pretendono di: 1) dare vita a joint venture con i grandi marchi stranieri; 2) assorbire la tecnologie dei partner stranieri; 3) arrivare a costruire nuove vetture con marchi cinesi. Non proprio gli stessi obiettivi americani: fare grandi profitti e tenere lontani (il più a lungo possibile) i cinesi dalla loro tecnologia. Ma, come scrive ancora Dunne, c'è un'altra vulnerabilità che potrebbe rallentare la corsa in terra cinese: essere esposti ai capricci dei dirigenti di Pechino. Il vento potrebbe cambiare? Gm ha ceduto l'1% della joint venture con Saic (per 85 milioni), lasciando di fatto il controllo a Shanghai. Non sono mancati i benefici dell'operazione, come la linea di credito con le banche cinesi: 400 milioni di dollari che hanno tra l'altro salvato la coreana Daewoo. Il libro di Dunne svela anche i meccanismi della macchina cinese, e di chi voglia agganciarla. A cominciare dall'ingrediente più importante: senza un partner locale pensare di accedere al mercato cinese è semplicemente un miraggio.    
                                                                      

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