Marcus a caccia dell'enigma Dylan

Ci sono “ossessioni” che possono durare, immuni al trascorrere del tempo, anche quarant’anni. Come quella che lega Greil Marcus - incontrastato re del giornalismo musicale Usa, capace a partire da Mystery train (1975) di sovvertire le regole della critica – a Mr Bob Dylan. Marcus per oltre 40 anni si dedica all’opera di Dylan: la viviseziona, la ama, la critica, la trafigge con il suo (instancabile) lavoro ermeneutico. Un volume (Bob Dylan. Scritti 1968-2010, Odoya) raccoglie ora le fatiche del critico che esordì nella leggendaria rivista Rolling Stone sulle tracce del più enigmatico e sfuggente cantore che l’America ci abbia mai restituito. Dal primo incontro nel 1963 – “sul palco salì un tizio con chitarra dall’aria trasandata, le spalle curve e l’aria di chi non è a proprio agio” – fino alla produzione più recente e matura, sulla quale Marcus esercita un’arte da filologo: come nota nell’introduzione Riccardo Bertoncelli, sua specialità “è la ricerca minuziosa o l’accostamento che non ti aspetti, il reticolo di fili che può avvolgere una oscura canzone che si fatica anche solo a ricordare”.



Non senza ripensamenti, anche severi, nei quali il critico Marcus fa a pugni con il fan Marcus. E vince. Un capolavoro come Masters of war, il grido anti militarista del primissimo Dylan? “Troppo sentenziosa, troppo farisaica, troppo piena di sé”, “osa” scrivere il giornalista. Il motivo di una così decisa bocciatura? Quel brano incarna una “fase” della carriera del cantante - quella dell’incorruttibile menestrello folk - che sarebbe diventata per il cantante una prigione. Ma cosa fa di Bob Dylan – a 70 anni suonati, sciamano sempre in tour, sempre pronto a sfornare album e sempre a un passo dal premio Nobel senza mai acchiapparlo - ancora oggi un mistero? Cosa fa della sua scrittura e della sua voce un unicum irripetibile (e inimitabile)? Scrive Marcus: “Dylan canta queste vecchie canzoni come se sapesse che contengono la verità dell’essere, dalla nascita alla morte”. Se questo è allora lo “scrigno” Dylan, quali chiavi tentare per forzarlo? Primo: Dylan si tuffa e riemerge in fondi eterogenei e mai del tutto scandagliati - dalla Bibbia alla canzone popolare, dalla poesia di Eliot e Shakespeare al blues. Secondo: Dylan usa (e abusa) di registri apparentemente inconciliabili, dai toni oracolari a quelli profetici fino a quelli “bassi”. Terzo: Dylan gioca con le sue molte identità, si esalta nel gioco del nascondimento e della rivelazione, si distende in questo magmatico affollarsi di figure e di volti (la superba Jokerman è un esempio della costruzione piramidale di Dylan, nella quale ogni livello di significato sovverte e complica il precedente). Quarto: Dylan si ribella al principio dell’unità. Come ha scritto Alessandro Carrera, uno dei suoi più dotti esegeti, siamo dinanzi a un autore “nel quale tutta la scrittura è riassunta nella voce; anzi nelle voci, perché Dylan ne ha molte, una per ogni fase della sua carriera”. Una voce – e le parole di Marcus suonano come la resa di un innamorato –  “graffiante e apparentemente sprezzante” in grado di farsi “piena, ardente, urgente e poi delicata”.

Sono nato qui e qui morirò, contro il mio volere
so che sembra che mi stia muovendo ma sono sempre fermo
ogni nervo del mio corpo e' così nudo e intorpidito
non riesco neanche a ricordare da cosa scappavo quando sono venuto qui
 non si sente neanche il mormorio di una preghiera
 non e' ancora buio, ma lo sarà presto” (Not dark yet)


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