Se l'India si militarizza

Altro che sonnacchiosa democrazia. L'India si prepara alla prova muscolare. E lo fa confrontandosi con quella che l'Indian defence review, autorevole rivista militare, bolla come la «sindrome cinese»: una vera e propria ossessione nata dalla (umiliante) sconfitta militare del '62 ed alimentata dall'esplosiva ascesa - politica, economica, militare - di Pechino sul palcoscenico mondiale. New Delhi ha autorizzato un piano da 13 miliardi di dollari per la modernizzazione del suo esercito: è il più ambizioso della sua storia. Come scrive AsiaSentinel, il progetto comprende, tra l'altro, l'immissione nei ranghi dell'esercito di altri 90mila soldati nei prossimi cinque anni, la creazione di quattro nuove divisioni che saranno dispiegate lungo il confine India-Cina, l'acquisto di 126 aerei da combattimento. Il governo indiano ha poi dato il via libera al posizionamento di missili da crociera supersonici BrahMos nel Arunachal Pradesh, lo Stato indiano sui cui confini i due giganti asiatici litigano da decenni.

Il nuovo balzo nella militarizzazione dell'India arriva peraltro dopo una serie di massicci investimenti. Il budget militare è cresciuto del 70 per cento in 5 anni. L'Elefante, da sempre il principale cliente della Russia in fatto di armi, negli ultimi anni ha invece cercato di muoversi su più fronti (e più mercati). Come si legge sul rapporto americano "Conventional arms transfers to developing nations, 2003-2010", nel 2004 New Delhi ha acquistato aerei Falcon da Israele e nel 2005 sei sottomarini Scorpène dalla Francia. Nel 2008 è stata la volta di sei aerei cargo C130J dagli Stati Uniti. Nel 2010 il Regno Unito ha venduto all'India 57 jet Hawk e l'Italia 12 elicotteri AW101. Ma cosa motiva una così poderosa corsa agli armamenti? Secondo gli analisti indiani, la causa è una: la paura del progressivo «accerchiamento» con cui la Cina starebbe stringendo, in una morsa minacciosa, l'India. In particolare a spaventare gli strateghi indiani è la presenza cinese nel Golfo del Bengala e sull'Oceano Indiano. Il Dragone starebbe tessendo quella che è stata definita la strategia del "filo di perle", una serie di porti e postazione per garantirsi accessi diretti sull'Oceano Indiano: Gwadar in Pakistan, Hambantota in Sri Lanka, Ayab, Cheduba e Bassein in Myanmar, Chittagong in Bangladesh. Gli appetiti cinesi si concentrerebbero attorno allo stretto di Malacca - vero e proprio collo di bottiglia che misura appena 54 chilometri -: "ganglio" assolutamente vitale per l'economia di Pechino. Basti dire che attraverso le sue acque, cifre fornite dall'International Energy Agency (Iea), transitano ogni anno 60mila navi, e circa l'ottanta per cento delle importazioni di petrolio della Cina. Del totale di imbarcazione che transitano nell'Oceano indiano, il 40 per cento è cinese. Ma non basta: secondo New Delhi, la Cina avrebbe schierato 10mila soldati a Gilgit, in Pachistan. In teoria per lavorare alla Karakoram Highway, costruita per collegare la provincia cinese del Xinjiang con il Pakistan. In pratica, per accerchiare l'India. All'attivismo militare si unisce il protagonismo diplomatico. New Delhi ha ospitato il mese scorso due capi di stato, il presidente vietnamita Truong Tan Sang e il presidente birmano Thein Sein. Entrambi i Paesi stanno cercando di scavarsi più ampi margini di manovra in chiave anti-cinese. Anche Tokyo ha deciso di infittire i rapporti con New Delhi. Il ministro della Difesa AK Antony, che due settimane fa ha visitato il Giappone, ha "spinto" per la prima esercitazione, aerea e navale, tra India e Giappone. L'appuntamento è per il prossimo anno.                                

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