La sfida tra Cina e Usa

Doveva essere il summit del dialogo e della cooperazione, sta diventando (quasi) una resa dei conti. Ieri è stata la volta del premier cinese Wen Jiabao lanciare strali all'indirizzo «delle forze esterne» che tramano per intervenire nelle dispute che stanno "accendendo" il Pacifico del sud. L'avvertimento, neanche tanto velato, è rivolto al presidente Usa Barack Obama che, nel corso della sua visita in Indonesia, solleverà la questione della sovranità sui gruppi di isole contese tra Cina e la costellazione di Paesi che si affacciano sul Mar cinese meridionale: Vietnam, Filippine, Malaysia e Mynamar. Una "zuffa" che coinvolge però anche altri attori che ambiscono a un ruolo regionale, a cominciare dall'India. Metà del tonnellaggio mondiale transita attraverso queste acque che la Cina considera "cosa propria": esse custodiscono riserve di petrolio per 7 miliardi di barili e 900 miliardi di metri cubi di gas naturale.
Per gli analisti, la stizzita reazione cinese tradisce la sorpresa dinanzi all'offensiva politico-diplomatica della Casa Bianca. Sorpresa in qualche modo giustificata. L'Amministrazione Obama ha inaugurato il suo mandato con una visita storica - con tanto di omaggi - alla Cina, ha congelato la vendita di nove armi a Taiwan, ha messo - come nota il Guardian - in sordina la questione dei diritti umani. Poi il cambio di marcia. Improvviso e potente. Un'escalation. Il segretario di Stato Hillary Clinton che avverte che gli Usa si concentreranno sull'Asia-Pacifico. Obama che incalza Pechino, invitandola «a giocare secondo le regole». E ancora: la sosta in Australia - con l'annuncio dello sbarco dei marine - il corteggiamento al nuovo Myanmar, il sempre più stretto sodalizio con il Vietnam (che ha concesso agli Usa l'uso della Baia di Cam Ranh), il supporto offerto alla marina delle Filippine.
Ma non basta. Obama è stato il promotore del patto di libero scambio tra 12 nazioni (il Trans-Pacific Partnership Agreement) che di fatto esclude la Cina: un accordo, scrive OrizzonteCina, che mira a un'ambiziosa liberalizzazione degli scambi in un'area del mondo che già oggi genera il 50% del commercio e il 60% del Pil mondiale. La sensazione è che gli Stati Uniti vogliano spezzare o quanto meno indebolire i rapporti tra il Dragone e il Sudest asiatico. Una strategia che mette a nudo una ambiguità: si tratta di Paesi che cercano l'ombrello della difesa Usa, spaventati dal nuovo hard power cinese, ma che di fatto intrattengono rapporti molto stretti con Pechino. Tra il 2000 e il 2010, secondo il Japan Times, il commercio tra la Cina e i Paesi Asean è aumentato di sei volte arrivando a quota 193 miliardi di dollari. Nello stesso periodo la quota degli Usa è scesa al 10,6 dal 15 per cento. Ma non solo commercio. Secondo la U.S.-China economic and security review commission, il Dragone tra il 2000 e il 2008 ha venduto a questi Paesi armi per un valore di 264milioni di dollari. Il 60% è finito al Myanmar. (Avvenire)
                                                          

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