Alessandro Portelli. Bob Dylan, Pioggia e Veleno


Un singolare destino segna la storia – l’epilogo? - del rock and roll. Proprio nel momento in cui, come forma d’arte, sembra vicino all’estinzione, quando pare aver smarrito qualsiasi carica eversiva ed essere divenuto totalmente periferico, ingoiato dall’industria musicale e di consumo, i suoi cantori entrano nell’"Accademia". Il caso più eclatante è quello di Bob Dylan, incoronato con il Premio Nobel per la letteratura (2016), sicuramente la voce più ardita dell’universo rock, capace di torturarne la “lingua” fino a farne qualcosa di totalmente nuovo, inaspettato, scabroso.

Non è un caso allora che Alessandro Portelli abbia scelto di cristallizzare Dylan in uno dei suoi momenti aurorali, quello catturato da “Hard Rain’s A-Gonna Fall”. Siamo nel 1962, agli albori della sua carriera, quella ancora tutta raccolta nel furore apocalittico, certificato in tutta la sua asprezza proprio dal brano “adottato” dall’americanista.

Perché (ancora) Dylan? Perché Dylan è la voce. Una voce “tagliente” (Sean Wilentz), “graffiante e apparentemente sprezzante, piena, ardente, urgente e poi delicata” (Greil Marcus), una voce “di carta vetrata, arrogante e sdegnosa come nessuna” (Alessandro Carrera). Ma soprattutto perché Dylan è qualcosa di più. Dylan è anche testo, Dylan è la vertiginosa guerra, il corpo a corpo, tra voce e testo: “Dylan ha cessato da tempo di essere un semplice artista. Ormai è una geografia, un universo semiotico, un’intera cultura concentrata in un singolo performer, un’infinita partita a scacchi tra la parola e la voce” (Carrera).

  
Il Dylan di Portelli, il Dylan che Portelli ama e restituisce, è il Dylan “sciamanico”, quello che raccoglie, “trasfigurate nella sua voce,  secoli di voci inascoltate ed escluse”. “Bob Dylan – scrive l’americanista - non è solo un anello di una catena ma è soprattutto un anello fra le catene, capace di far comunicare fra loro tradizioni e linguaggi diversi, rinnovarli e trasformarli facendoli vivere”. Il suo essere il catalizzatore (e detonatore) di un’intera tradizione: ecco il Dylan che affascina Portelli.

“Come tanti artisti americani, da Faulkner a Mark Twain, Dylan è disturbato dall’idea che un “testo”, una volta scritto o “inciso”, sia congelato, ossificato in un’immobilità mortale”. Allora parte della sua unicità “è proprio il modo in cui cerca di essere sia permanente come testo, sia effimero come performance, collocandosi come solo un artista della voce può fare, sul punto dove si incontrano testo e performance, oralità e scrittura”. E’ dall’urto e deflagrazione di queste due dimensioni che nasce l’arte di “Hard rain” e del suo cantore.

In Dylan rivive, insomma, una memoria stratificata  - quella della ballata, di cui Portelli ricostruisce con grande maestria i “processi” che la plasmano, che in qualche modo la levigano, la ossificano, le consentono quella essenzialità che ha garantito la trasmissione e la sopravvivenza della sua poetica. Ma vive in Dylan , anche, quell’alchimia che - intrecciando voce, corpo, improvvisazione, performance ma anche le infinite variazioni “della riproducibilità tecnica” - costituisce oggi probabilmente la più formidabile eredità della cultura americana. Un’eredità che deve fare i conti con modi di fruizione completamente inediti. L’ascolto del disco - la sua centralità e “fissità” - ha ceduto il posto alla “presa in diretta”, emozionale, disseminata, istantanea, catturata da un cellulare, delle canzoni che ne costituivano la struttura. Un’eredità che nessun vento sembra, per ora, avere ancora raccolto.

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