Cina, ci saranno le riforme al Plenum?


Le «parole chiave» del sogno in salsa orientale, quelle che dovranno modellare la Cina di domani? Le ha elencate, con il solito carico di retorica, la rivista "ufficiale" Beijing Review che dedica ai lavori del "terzo" Plenum del comitato centrale del Partito comunista cinese - si parte oggi e si finisce il 12 a Pechino - un corposo speciale. Gli ingredienti vanno dalla «felicità del popolo» alla «prosperità», dal «grande ringiovanimento della nazione» alle «riforme», che naturalmente devono essere «incisive». Eccola allora la parola che, come un mantra, sta rimbalzando ossessiva alla vigilia di quello che l'agenzia di stampa Xinhua ha presentato come «il più importante appuntamento politico» della casta comunista cinese. La parola "riforme".

 Pochi giorni fa Yu Zhengsheng, membro del Politburo e numero 4 della gerarchia cinese, ha fatto sapere che il partito sta studiato riforme «senza precedenti». Il premier Li Keqiang ha promesso la modernizzazione dell'agricoltura, definendola come una «missione strategica importante». Il 7 ottobre scorso il presidente Xi Jinping ha parlato di una «profonda rivoluzione». A frenare subito gli entusiasmi ci ha pensato il People's Daily, il più importante giornale del Paese. A quanti «chiedono la copia indiscriminata del sistema occidentale il partito risponde mantenendo salda la propria leadership». Dunque niente fughe in avanti, niente "occidentalizzazione selvaggia", niente riforme del sistema politico. Una cosa è certa però. Il percorso delle riforme - auspicato ieri anche da Segretario al tesoro Usa Jacob Lew - non sarà indolore. Il summit - come scrive l'Associated press - è solo l'inizio di un lungo e tormentato processo. I leader cinesi sono «d'accordo sulla necessità di cambiare», ma su come farlo - senza urtare interessi e posizioni di potere - non c'è unanimità. Come procederanno allora che i vertici del partito? Con estrema cautela. «Non è possibile proporre un intero pacchetto di riforme e fare tutto in una volta», spiega Tao Ran , direttore del Brookings-Tsinghua Center for Public Policy. «Devi studiare come farlo, devi studiare il sistema, i gruppi di interesse e offrire ricompense che risarciscano chi perde il proprio potere». Sono due i principali nodi da sciogliere. Primo: il rapporto tra campagna e città, croce e delizia da sempre del sistema sociale cinese. Lo scorso anno il governo ha annunciato che la popolazione urbana ha raggiunto il 51%, superando per la prima volta quella rurale. Nel 1978 la proporzione era del 18%. Ma 270 milioni di persone (quasi il 40 % del totale), residenti nelle aree urbane, sono intrappolati nel sistema dello hukou, la "carta dello stato civile". In pratica sono cittadini di serie B, impossibilitati ad accedere a un gran numero di servizi sociali. In cosa consiste il sistema delle registrazioni? «Lo hukou - spiega China Files - venne istituito, in piena epoca maoista, con lo scopo di distinguere tra lavoratori rurali e lavoratori urbani». Attraverso il sistema il Partito poteva «effettuare un rigido controllo sugli spostamenti della popolazione e non invogliare eccessivi trasferimenti di persone dalle campagne alla città». Oggi è tutto cambiato. E le voci che chiedono un radicale cambiamento sono sempre più insistenti. Come si legge su Agi China 24 l'obiettivo è chiaro: permettere a chi lavora in città, pur avendo un permesso di residenza rurale, di accedere ai servizi sanitari e pensionistici nella zona d'impiego. Gli effetti positivi sarebbero a cascata. A partire dall'impulso ai consumi, per i quali si libererebbe una fetta dei risparmi di centinaia di milioni di cinesi. La questione incrocia l'altro tema scottante che il Plenum dovrà affrontare: quello della crescita economica. La Cina ha rallentato in modo significativo, frenando al di sotto dell'8%. Una frenata inevitabile, ma ugualmente inquietante per i rischi sociali che si trascina dietro. Se è vero che Pechino, per anni, è stata una locomotiva lanciata a tutta velocità - il picco del 14 per cento è stato toccato nel 2009 - è anche vero che metà della crescita recente (ferma al 7,8 per cento) è stata "drogata" dalla spesa pubblica. Commercio e consumo latitano. Di qui la necessità, per gli analisti, di puntare su una maggiore concorrenza di mercato, promuovendo le imprese private e la liberalizzazione finanziaria. L'Economist ha chiosato: il modello di crescita trainata dagli investimenti ha bisogno di essere sostituito da uno alimentato in gran parte dalla crescita della produttività e dai consumi. Se nei giorni scorsi è rimbalzato sui media cinesi il cosiddetto piano «383» - che individua una serie di obiettivi tra i quali la riduzione della burocrazia e dei monopoli, la riforma fondiaria, la liberalizzazione della finanza -, da dove iniziare in questa immane opera di demolizione? Per il politologo Willy Lam, ascoltato da Agi China 24 «la riforma più urgente è quella delle imprese di Stato: ci sono 110 imprese che hanno il monopolio nelle aree in cui operano, sono altamente inefficienti e hanno condizionato la formazione di una vera economia di mercato». «I principali ostacoli - nota poi Wu Qiang, studioso di scienze politiche all'università Tsinghua di Pechino - sono i monopoli e la concorrenza sleale degli interessi costituiti, specialmente da parte dei funzionari e le imprese di Stato». Ecco allora la domanda "capitale": il sistema politico cinese ha la capacità di rigenerarsi? Il partito può riformarsi dall'interno? O, come si è chiesto Nunziante Mastrolia sull'Osservatorio Strategico del CeMiSS: «Come consentire al partito di continuare ad essere l'unico detentore del potere ed anzi permettergli di rinsaldare il proprio ruolo a fronte di una società civile sempre più attenta, sempre più aperta al mondo?». Per l'analista dietro la facciata monolitica si stanno, in realtà, succedendo una serie di scosse telluriche. Con il partito che si scopre vulnerabile, costretto a un ruolo inedito: quello di «esecutore della volontà dell'opinione pubblica».

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