Arminio, la poesia e la rovina
Il mezzo è il camminare. Il camminare per guardare perché oggi, dice Arminio, “percepire è più importante che giudicare”, perché “il mondo è colossale, non può essere richiuso nella baracca del nostro io”, uscire per evadere da quello che Arminio chiama l’autismo corale, il bozzolo di parole nel quale siamo annegati. Il fine è il Sud, il risveglio, il riattivarsi di energie nuove perché, scrive Arminio, oggi “se il mondo vuole salvarsi deve essere ripensato da Sud" ed “essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, significa rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, al buio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza”. Il Sud di cui parla Arminio si trova all’incrocio tra il Sud reale e quello mentale, il Sud che è terra e il Sud che è sogno, il Sud che si sente sotto la pianta dei piedi e quello utopico se è vero, come diceva un altro narratore del Sud, Ignazio Silone, che “il mito del Regno non è mai scomparso dall'Italia meridionale, questa terra di elezione dell'utopia”. È un Sud gremito di tanti Sud, è Taranto e Matera, la “città apocalittica” e “l’estetica della povertà”, il Sud che “si è fatto convincere che il buono è altrove”, il Sud del lamento che “non è mai premessa per una militanza nuova” ma “una postura naturale, qualcosa che serve per stare al mondo accucciati nelle retrovie”, un Sud che è però vivaddio “avanguardia”, un Sud antico e nuovo, “un Sud capace di convincersi che ha qualcosa di miracoloso”.
Franco Arminio, Geografia commossa dell'Italia interna, Bruno Mondadori
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