Tibet, la Cina non molla la presa
Ha promesso di migliorare le condizioni di vita nel Paese e di mantenere la stabilità sociale. Ha tirato fuori dal cilindro la “triade” che la leadership cinese non si stanca di ripetere come un mantra: benessere, progresso, stabilità. Ma non si è risparmiato gli strali all’indirizzo della «cricca del Dalai Lama» e delle «attività separatiste» con le quali il leader spirituale dei tibetani vuole «mettere a repentaglio l’unità nazionale». Il palcoscenico, nella liturgia politica cinese, è di quelli che contano, la retorica sfoderata per l’occasione ridondante. A Lhasa, nella cerimonia per celebrare il 60esimo anniversario dell’annessione del territorio alla Cina del Tibet – la «pacifica liberazione » come la chiamano a Pechino, l’inizio di un «genocidio culturale » per i tibetani – c’è stato il “debutto” del vicepresidente e futuro presidente cinese, Xi Jinping.
Un’occasione non da poco. Il Tibet costituisce da sempre una nota di merito nei curriculum degli uomini al comando in Cina: l’attuale presidente Hu Jinato è stato l’artefice dell’introduzione della legge marziale all’inizio del 1989 quando era capo del partito del Tibet. Il discorso di Xi ricalca le orme dei suoi predecessori. «Distruggeremo tutti i tentativi di sabotare la stabilità in Tibet e l’unità nazionale della madrepatria», ha detto il vicepresidente cinese. E ancora: «Lo straordinario sviluppo del Tibet negli ultimi 60 punti anni è dovuta ad un’inconfutabile verità: senza il Partito comunista cinese, non ci sarebbe stata nessuna nuova Cina, non ci sarebbe stato nessun nuovo Tibet». L’occupazione cinese del Tibet prosegue a ritmi forzati. Immissione massiccia di cinesi da un lato, pedale al massimo per la costruzione di nuove infrastrutture dall’altro, sono le “armi” privilegiate da Pechino. Il presidente Hu Jintao ha assicurato a più riprese che «sforzi meticolosi» saranno dedicati «al programma di riforme, sviluppo e stabilità» del Tibet. Programmi che si traducono in nuove strutture per rendere più accessibile la regione. Il ministro dei Trasporti, Li Shengling ha recentemente fatto sapere che «entro il 2015 la maggior parte dei villaggi del Tibet saranno ragcelebrazioni giungibili attraverso delle superstrade ». Aperta nel 2006, la tratta ferroviaria Qinghai-Tibet che ha trasportato 18 milioni di passeggeri e 90 milioni di tonnellate di merci, sarà progressivamente estesa arrivando a toccare Xigaze, la seconda città più grande del Tibet. A Pechino sottolineano come «la ricchezza del Tibet dai 155 miliardi di euro nel 1984 è passata a 1.550 miliardi nel 2001, per arrivare ai 4.400 miliardi nel 2008, con un tasso di crescita annuale pari al 12%». Secondo il China Daily , il numero dei poveri nella regione è calato da 964mila a 500mila dal 2005 a oggi. Il reddito netto pro capite dei contadini e pastori tibetani è schizzato in alto grazie «a una crescita a due cifre per otto anni consecutivi. Lo scorso anno, la cifra ha raggiunto 3.990 yuan, quasi il doppio livello del 2005». Ben diversa il racconto dei tibetani. Secondo il rapporto sui diritti umani pubblicato all’inizio dell’anno dal Tibetan Centre for Human Rights and Democracy, continua nella regione la caccia agli intellettuali e ai dissidenti. Oltre 830 quelli detenuti: di questi solo 360 sono stati condannati da un tribunale.
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