La dittatura delle emozioni
Affondiamo, secondo il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, in una sorta di contemporaneità volatile. Il potere - il cui enigma non ha mai smesso di interrogare la filosofia - ha abbandonato progressivamente la disciplina dei corpi. Si è dematerializzato. Ha preso a circondare, penetrare, colonizzare una "cittadella" rimasta, fino a ora, estranea alla sua presa, entrando dove non era mai arrivato: nella psiche. È il declino della biopolitica, l'ingresso nella psicopolitica. Il tramonto della demografia, il trionfo della psicografia.Ma come è avvenuto questo slittamento? Qual è stato l'agente, il grimaldello della trasformazione? Per Anne-Cécile Robert, si tratta di qualcosa di apparentemente "innocente", sfuggente per natura, evanescente, volatile appunto, ma che gode di un consenso unanime e universale. L'emozione. È sulla sua proliferazione senza freni che si è costituito - scrive l'esperta di istituzioni europee e africanista francese - «un fenomeno inedito: la gestione della società attraverso le emozioni». Questa profusione ha, per l'autrice, un effetto dominante: anestetizza. Non spinge all'azione, ma paralizza.
Non pretende la trasformazione delle dinamiche che la provocano, ma ricerca la ripetizione di se stessa. Non solo: essa contamina, fino a saturare l'intero discorso pubblico. Basta assistere a un dibattito televisivo, o frequentare i social network per riscontrarlo. Nei primi è artatamente solleticata la rabbia, nei secondi domina una sorta di autobiografismo esasperato. In entrambi l'insulto zittisce il dialogo. Quello che è accaduto, scrive Anne-Cécile Robert, è che «la relazione col mondo si sottomette al predominio dell'emozione». Con quali esiti? Se, come nota ancora Byung-Chul Han, «oggi, in fondo, non consumiamo più cose, ma emozioni: le cose non possono essere consumate all'infinito, le emozioni sì», questa intossicazione, virtualmente infinita, quali conseguenze sta producendo? «L'emozione mette fine alle domande, erige una barriera di fronte alla riflessione: impedisce il pensiero». È dunque, il pensiero a essere inibito, relegato, depotenziato. «La strategia dell'emozione dispiega qui tutta la sua potenza: riduce l'umano, lo banalizza, lo porta a rannicchiarsi nella sua animalità, relativizzando ciò che lo ha portato fuori dalle caverne, cioè la sua capacità di pensare». Sotto il vento impetuoso dell'emozione, la conoscenza (che si acquisisce nel tempo e con una dose necessaria di fatica), la competenza (che distingue tra chi sa e chi ignora), la riflessione (indispensabile perché precede la decisione) arretrano, detronizzate dall'imperio del sé. «Il predominio dell'emozione altera lo spazio pubblico favorendo lo sviluppo di una forma di relativismo che isola l'individuo nella sua sfera intima. La sopravvalutazione di sé e del proprio sentire ha un effetto deflagrante sul dialogo civile». Il risultato è «una delegittimazione dell'autorità della conoscenza a favore di quella del sentimento». (Avvenire 29-11- 2019)
Non pretende la trasformazione delle dinamiche che la provocano, ma ricerca la ripetizione di se stessa. Non solo: essa contamina, fino a saturare l'intero discorso pubblico. Basta assistere a un dibattito televisivo, o frequentare i social network per riscontrarlo. Nei primi è artatamente solleticata la rabbia, nei secondi domina una sorta di autobiografismo esasperato. In entrambi l'insulto zittisce il dialogo. Quello che è accaduto, scrive Anne-Cécile Robert, è che «la relazione col mondo si sottomette al predominio dell'emozione». Con quali esiti? Se, come nota ancora Byung-Chul Han, «oggi, in fondo, non consumiamo più cose, ma emozioni: le cose non possono essere consumate all'infinito, le emozioni sì», questa intossicazione, virtualmente infinita, quali conseguenze sta producendo? «L'emozione mette fine alle domande, erige una barriera di fronte alla riflessione: impedisce il pensiero». È dunque, il pensiero a essere inibito, relegato, depotenziato. «La strategia dell'emozione dispiega qui tutta la sua potenza: riduce l'umano, lo banalizza, lo porta a rannicchiarsi nella sua animalità, relativizzando ciò che lo ha portato fuori dalle caverne, cioè la sua capacità di pensare». Sotto il vento impetuoso dell'emozione, la conoscenza (che si acquisisce nel tempo e con una dose necessaria di fatica), la competenza (che distingue tra chi sa e chi ignora), la riflessione (indispensabile perché precede la decisione) arretrano, detronizzate dall'imperio del sé. «Il predominio dell'emozione altera lo spazio pubblico favorendo lo sviluppo di una forma di relativismo che isola l'individuo nella sua sfera intima. La sopravvalutazione di sé e del proprio sentire ha un effetto deflagrante sul dialogo civile». Il risultato è «una delegittimazione dell'autorità della conoscenza a favore di quella del sentimento». (Avvenire 29-11- 2019)
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