Springsteen on Broadway

È una specie di ronzio. Fastidioso. Inquietante. Questo fruscio molesto si ferma in una parola: testamento. Ascoltare Springsteen on Broadway è come leggere un testamento. Avere tra le mani un lascito. Lo sforzo - titanico, intelligente, sensibile, irriverente, dissacrante (dopotutto è tutto “un trucco”), a volte disperato, a volte terribilmente divertente - di “scolpire” la propria vita. E’ quella che Michel Foucault chiamava “stilistica dell’esistenza”. Improntare, modellare la propria esistenza su uno stile. Condensarla in una forma leggibile, definitiva. E’ l’operazione che Bruce sembra aver voluto fare, volgendo lo sguardo però al passato, alla propria storia, al proprio vissuto.


Una operazione, come è noto, partita con l’autobiografia in cui Bruce ha confermato la sua eccezionale abilità di narratore. Non era  scontato che quella storia si traducesse in uno spettacolo teatrale. Perché di questo si è trattato. Springsteen lo ha fatto saldando canzoni e racconto. Sperimentandosi in una nuova forma. Con coraggio. Tornando a uno show non solo scritto, non solo scandito in ogni sua passaggio, ma conchiuso. Una narrazione. Una forma. Negli ultimi anni è quello che Springsteen aveva perso per strada. Le ultime tournee sono state delle feste, dei rituali che - per quanto entusiasmanti siano stati per ognuno di noi - avevano smarrito proprio questo: il senso di una narrazione, di una storia da raccontare che non fosse solo il suonare assieme, la celebrazione (a volte un po’ stanca) della dimensione corale della musica.

E cosa ci ha detto Broadway – e le sue infinite repliche, tutte baciate dal successo - del “nuovo” Bruce? Credo questo. Che la forma canzone ora all’artista Springsteen non basta più. La “voce” - la voce di Bruce, affascinante, venata di dolore, tarlata dagli anni - le entra dentro, la scava, la interrompe, la zittisce, e così facendo, al tempo stesso, la sconfessa e la apre a nuove possibilità. La parola non è più al servizio del brano, come accadeva in passato quando Bruce, per esempio, introduceva The river o i pezzi di Tom Joad, quando il vertice emotivo ed espressivo era toccato nel cantato. Lì il parlato guidava al brano, era al servizio della canzone. Ora è tutto cambiato. Ora è la canzone al servizio della voce. Il vertice è toccato nella parola, come nel racconto di My Father’s house – il punto più devastante dell’intero spettacolo - quando la voce si  incarica di accogliere il fantasma del padre, il fantasma della lotta col padre, di farsi spettrale, di  bordeggiare il silenzio. È la voce che si fa testimonianza, carne sangue ricordo. Come ha notato Paolo Vites, a Broadway, la canzone si modella sulla voce, perde le linee melodiche, in una sorta di spogliazione, di scarnificazione, di riduzione all’osso. Di riduzione alla nuda voce, appunto. È stato, credo, l’azzardo di Bruce, lo sporgersi sul suo abisso personale e sul suo abisso artistico. Il primo intravede la morte. Il secondo il silenzio.

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