Il vangelo secondo Bruce Springsteen (Claudiana)


Galveston Bay riunisce nelle stesse acque reduci del Vietnam e immigrati dal lembo d’Oriente. Le vecchie ferite e le nuove povertà scatenano il dramma. Ma il grumo di violenza che incatena ii personaggi del brano si scioglie – come ha scritto Alessandro Portelli – nel perdono e nel «gesto evangelico di gettare le reti in mare». E se in brani come Straight Time o Highway 29 non si offre ai personaggi di Springsteen altra via di uscita che quella della fuga – la deriva nel sogno, la deriva nella morte – l’attraversamento della frontiera in Across the Border è assieme fisico e spirituale. L’approdo è reso con immagini di «pascoli erbosi» e di «acque limpide», prese in prestito, come ha notato Antonio Spadaro, dal Salmo 23.


La “dimensione teologica” nella scrittura di Springsteen respira, ondeggia, prende “forme plurali”; è bene parlare, raccomanda il docente di Jewish Studies and Classic alla Rutgers University, non di una teologia” ma “delle teologie” di Bruce Springsteen.



  
Quel che si ostenta qui è una “qualità” della scrittura di Springsteen. Muoversi, senza rotture, con disinvoltura, tra i campi del secular e del religious. Infondere, catturare la vita – esprimere le sue cadute, le sue speranze quotidiane – dentro e con un tessuto di simboli, immagini, figure trasparentemente religiose. Springsteen, però, non decide né per l’uno né per l’altro, la sua scrittura si muove in quello spazio di indistinzione tra secular e religious, tende gli orli di secular e religious fino a farli toccare, li spinge a sconfinare, a ibridarsi, contaminarsi. 


Mediata dal patrimonio degli Spiritual – che il rocker riattualizza nell’esperienza delle Segeer  Sessions – la Bibbia costituisce, per Springsteen, una sorta di pre-testo sul quale il cantante si appoggia per costruire la sua formidabile narrazione americana.

  

 

 

 
La fede nella terra promessa coincide con una dichiarazione di maturità: «Non sono un ragazzo / sono un uomo / e credo nella terra promessa», urla il protagonista. Ma in che cosa consiste la terra promessa cantata? Quale approdo essa assicura o lascia intravedere? Qual è la destinazione alla quale essa prelude? Nell’ultima strofa del brano, Springsteen canta: «C’è una nuvola nera che si alza dal deserto / ho fatto le valigie e mi dirigo diritto nella tempesta / sarò un ciclone che spazza via / ogni cosa che non ha la fede per restare salda al suo posto». Saldezza, fede, ora e qui.

 

C’è una figura che torreggia nelle pagine di Born to Run, la sorprendente – per la ricchezza espressionista dei racconti, per una scrittura che sa essere fluida e fortemente evocativa, soprattutto quando indugia nelle vite degli “antenati” italiani e irlandesi – autobiografia di Springsteen, uscita nel settembre 2016. Più ancora dell’ascetica (e maniacale) dedizione alla musica del Boss, più ancora dei fasti planetari e delle cadute “private” di cui è intessuta la vita del rocker americano, più ancora del mondo musicale a stelle e strisce che Springsteen restituisce in tutta la sua ammaliante potenza. Quella figura – austera, inamovibile, astiosa, sorta di “Buddha” operaio arenato nella cucina di casa – è il padre.

 

 
In Factory il padre è recluso, non più di una casa come accadeva in Adam Raised a Cain, ma nella fabbrica

 

Il mondo cupo, desolato, disabitato, inghiottito dalla colpa e dal peccato, è ora squarciato da una «luce infuocata». La nascita che in Adam Raised a Cain era il veicolo di trasmissione del marchio di Adamo diventa ora «la prova vivente», incarnata, della pietà di Dio.

 

Se Born to Run è dominato dalla fuga in auto per agguantare «lo sfuggente sogno americano», se The River spinge i suoi personaggi sull’orlo dell’abisso spirituale e se le voci – spettrali – di Nebraska si alzano da quell’abisso (impregnate di sangue), la lunga corsa dei personaggi di Springsteen ha, in Tunnel of Love, una nuova destinazione: una casa.

 

 
 
 
Il mondo conosciuto – il mondo consueto, quotidiano, familiare fatto «di camicie nell’armadio» e di «scarpe in corridoio» (You’re Missing), le tracce mute dell’assenza della persona amata – collassa «nel fuoco», si dissolve «nella polvere».

 

 
La caduta, lo sbriciolamento, il destino di erranza che coinvolge anche Dio (You’re Missing), la istruzione che riduce a polvere, il male che si materializza nella vipera che striscia, nel desiderio di vendetta, negli occhi che bruciano, l’orrore che si manifesta nel sangue che scorre, non esaurisce il mondo poetico di The Rising. Una sorta di contrappunto, di cucitura, lo attraversa interamente: immagini di ascensione, di salita, di risurrezione lo affollano.

 

Qui Springsteen si distanzia dal suo “modello” Guthrie. Per l’autore di This Land is Your Land la salvezza è riservata «ai santi ai giusti»: «i ladri, i bugiardi, i giocatori d’azzardo» non salgono sul «treno che corre verso la gloria». Sul treno cantato da Springsteen ci sono, invece, tutti: «buffoni e re», «santi e peccatori», «puttane e giocatori d’azzardo», «perdenti e vincitori». La salvezza non ammette tagli o esclusioni, fratture o pedaggi. La salvezza, cantata da Springsteen, è inclusiva, chiama tutti, interpella tutti, accoglie tutti. È una salvezza che conserva, intatto, il suo ancoramento alla terra. Come nel brano Kingdom of Days, il regno non espelle dalla storia, non sconfina dalla quotidianità, non rincorre distanze impercorribili. È il qui e ora, è la trama (umana) dei giorni.

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