La sapienza del cuore - Luigina Mortari

C’è un impensato rimasto in ombra nella riflessione filosofica: la vita affettiva. Il pensare si è come slegato dal sentire, ha progressivamente estromesso la forza vitale dei sentimenti dalla sua sfera, riparandosi nella cittadella disincarnata del concetto. Così facendo la filosofia ha smarrito la sua vocazione originaria: essere un’arte del vivere, techné tou biou, una stilistica dell’esistenza, la pratica – incerta, continua, reversibile - della trasformazione del sé.



Eppure il nostro esserci non solo è sempre uno stare al mondo, ma è uno stare al mondo sempre affettivamente connotato. A differenza della pietra, del vegetale o dell’animale l’uomo – come vuole l’antropologia heideggeriana – ek-siste, fuoriesce da qualsiasi determinazione. E’ quella che Luigina Mortari – la pensatrice che in Italia ha riflettuto con più profondità sulla “filosofia della cura” - chiama trascendenza: l’uomo agisce e re-agisce, risponde cioè all’appello del mondo, sbalzando fuori dall’“immobilità”, dall’eterna fedeltà a se stesso. Senza questo “salto”, il futuro non avrebbe senso, non sarebbe che una ripetizione dell’identico.

I sentimenti sono la risposta dell’uomo alla pro-vocazione del mondo e, al tempo stesso, il modo in cui l’uomo si intenziona al mondo. Come scrive Mortari, essi “non sono fenomeni evenemenziali e superficiali, ma sono coessenziali alla vita cognitiva”. Non si declinano come un qualcosa di occasionale, non occorrono come qualcosa di esterno all’esistere, giacché “l’esserci è sempre consegnato a una situazione emotiva”. Il sentimento “è un atto affettivo con cui ci dirigiamo verso l’altro in un certo modo; dunque, è qualcosa non di reattivo come l’emozione, ma di tensionale”. Non c’è, dunque, l’irrazionale da una parte, la ragione dall’altra, non vi è mai un conoscere impermeabile al sentire. Ma, sempre, un sentire che si dà nella forma del conoscere, un conoscere che si nutre del sentire. E’ su questa consapevolezza che il pensiero può recuperare “la sapienza del cuore”, praticare quella che Mortari chiama “una filosofia dell’autoformazione affettiva”. Perché l’esserci possa trasformarsi, deve conoscere se stesso, deve impegnarsi in “una vera e propria disciplina dell’autocomprensione”, deve volgere lo sguardo verso se stesso, deve immergersi nell’ “ermeneutica dell’esperienza”. Non è un caso che tanto il pensiero greco che quello cristiano abbiano custodito questo movimento del sé verso se stesso, questa torsione dello sguardo, necessario al cambiamento: è la platonica epistrophé, la metanoia cristiana. Perché l’autocomprensione riesca – è l’indicazione di Mortari – è indispensabile che essa passi sempre per “una forma di obbedienza al reale”.

Una verifica sperimentale alla “filosofia dell’autoformazione affettiva” è offerta dal dolore. Nessuna esistenza ne è immune, “il dolore sempre ferisce”. Come reagire di fronte alla sua invasione? Come disinnescarla? Come uscire dalla confisca della forza vitale che essa spesso porta con sé? “Per combattere un sentimento – scrive Mortari - non ci si accanisce su di esso, ma si coltiva qualcosa d’altro. Un atto affettivo che ha la forza di disordinare ogni costrutto e di disattivare anche le posture più cristallizzate della mente è la gratitudine. Sapere ringraziare”. E’ quella affinità, quel mutuo specchiarsi, che la lingua tedesca testimonia tra il pensare (denken) e il ringraziare (danken).
 
(Pubblicato su Avvenire il 2/3/2018)

 

 

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