Riparare i viventi - Maylis De Kerangal

Il cuore ha subito, ad opera della medicina, una sorta di destituzione a favore del cervello. Il suo arresto non basta più a certificare la fine della vita, non attesta più la sopravvenienza della morte. È  il secondo che sorveglia, come una sentinella, la linea mobile tra la vita e la morte. È  il suo cedimento irreversibile a decretare il prevalere della seconda sulla prima. Il capovolgimento non è solo medico, ma antropologico. La singolarità non è più raccolta nel cuore, ma custodita dal cervelloÈ questo spostamento che ha aperto al campo dei trapianti. Perché questi fossero possibili, si è divaricata la giuntura tra la vita e la morte. Non più, o non soltanto, salto brusco ma passaggio. Tra la vita e la morte si è configurato un territorio inedito, sospeso, governato da leggi altre. Un campo medicalizzato. "Dentro l'ospedale, la rianimazione è uno spazio a parte che accoglie le vite liminali, i coma opachi, le morti annunciate, ospita quei corpi al confine esatto fra la vita e la morte. Un universo di corridoi, camere, sale, governato dall'attesa".  L'attesa di un trapianto.


I personaggi di Riparare i viventi di Maylis De Kerangal - Simon, il ragazzo i cui organi saranno espiantati, i suoi genitori, i medici, gli infermieri - ondeggiano, si muovono, danzano dentro questo spazio bianco, lucido, asettico, dentro questa sorta di bolla iridescente. Inchiodati tra la vita e la morte. Dentro questo spazio, un filo lega la prima alla seconda, trattenendone l'irruzione.  E' la rete - labile, provvisoria, destinata a distruggersi - che sospende l'irreparabilità. Fuori vortica un altro mondo. Il mondo marchiato dal dolore. Un dolore denso, angoscioso, possente, solido, accerchiante. Un dolore sordo. La scrittura di De Kerangal ne restituisce con folgorante, commossa, intensità il tonfo: il crepitio che si produce quando intere parti dell'esistenza si staccano, precipitano, si schiantano. Il tonfo del presente (e la promessa di futuro che esso annuncia) inghiottito, divorato dal passato. Un passato siderale, sospeso, morto. Perché il passato è vivo solo se può essere iscritto nel progetto di un futuro. Il presente è aperto solo se non è risucchiato dal passato.


Lo spazio bianco, asettico, immobile è però atteso da un risveglio. È il momento dell'espianto. Quello che sembrava fermo, contratto subisce un'improvvisa accelerazione. Tutto si contorce, si mobilita, esce dalla quiete, percorso, sfidato da un'energia tellurica fino allora nascosta, spasmodica. Un alveare al cui centro è un corpo che si apre, che cede i suoi segreti, i suoi organi. "L'interno del corpo, torbido e sanguinante, rosseggia sotto le lampade". Ogni movimento risponde a una logica serrata, ferrea. Tutto deve essere preciso, pulito, perfetto, deve rispondere a un protocollo impeccabile. Ogni organo prelevato deve essere preservato. Prima che si compia la migrazione misteriosa e l'ingresso in altre vite.
 

Si può riparare la vita? Restituirla alla sua pienezza? Ricomporne la funzionalità? O, invece, della vita è proprio l’irreparabile? E se così – se la vita è ciò che sporge sull’irrevocabile, si trattiene sul suo orlo per poi precipitarvi – cosa può riscattarla? Cosa può risarcire il guasto, la ferita, l'abrasione? Riparare i viventi è (anche) un libro sulla lingua, un libro dove i linguaggi si intrecciano, urtano, confliggono. C'è il codice che scava "in quella zona fragile del linguaggio dove si dichiara la morte". La lingua codice, che serve a chiudere, a incapsulare il dolore di chi rimane nella membrana dell'incomprensione. C'è la lingua che si schianta nel dolore, che regredisce, che diventa balbettio, si fa respiro, urlo inarticolato. E c'è la catastrofe della lingua che assiste allo "spettacolo" della morte, incapace "di stabilire un rapporto fra l'interno distrutto e la sue esteriorità pacifica", un corpo che giace "indecifrabile, muto, come uno scrigno".

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