Shitao, la pittura del mistero

"Questo invece è il mio modo di recepire: la montagna in quanto mare, il mare in quanto montagna". Chi scrive è il maestro Shitao, figura tra le più affascinanti della pittura cinese (1641-1708 circa). Nel suo trattato sulla pittura - Discorsi sulla pittura del monaco Zucca Amara - distillò i principi guida della sua arte. Il testo riproposto in forma antologica (Shitao, Sulla pittura, Milano, Mimesis, 2009, pagine 128, euro 12) è curato da Marcello Ghilardi. L'iperbole di Shitao è spiazzante. Mare e montagna non sono entità all'estremo della materia, l'una liquida e l'altra rocciosa, l'una abissale l'altra svettante. Al contrario sembrano, nelle sue parole, curvarsi l'una sull'altra, fino a toccarsi, se non a confondersi. Della montagna, Shitao esalta "le brume, le nebbie, le valli segrete, i profondi precipizi", tutto ciò che ne cattura la natura ondeggiante, in movimento, marina, irrequieta. Del mare, il pittore ricalca "l'immensità, la profondità, il riso selvaggio, i miraggi, le maree che avanzano a ondate successive, come vette montane".

"La pittura cinese - scrive Ghilardi - dà luogo a quella che si potrebbe definire una estetica del passaggio, della transizione. L'animazione è colta non nella figurazione di una realtà inerte, o di un'immagine totalmente dispiegata, svelata; bisogna riprodurre il processo della natura, non fissarla in una forma statica". Non a caso l'originalità di Shitao si coglie nel binomio "modificazione-trasformazione" (bianhua) che il pittore formula nel suo trattato. L'atto di creazione allora "si presenta e si offre come ricombinazione di forme, rimessa in movimento di energie, "modificazione" (bian) e "trasformazione" (hua) di fenomeni". Una delle nozioni più "ardite" su cui Shitao insiste è quella di "unico tratto" (yi hua), che il pittore definisce "l'origine di ogni cosa", "la radice di tutti i fenomeni": "L'unico tratto avvolge tutto, fino ai limiti estremi, e solo grazie a esso nascono e si compiono le infinite pennellate, che dipendono dalla capacità e dal controllo dell'uomo". Spiega ancora Ghilardi: "Il segno pittorico è anche un potente mezzo, non solo espressivo, ma di collegamento, di unione tra l'essere umano e la dimensione invisibile che lo circonda e lo abita. Tramite un (solo) tratto, l'uomo può entrare in comunicazione, può far circolare il soffio-respiro-energia (qi) che anima lui stesso, così come anima la natura e il mondo".
 
A segnare l'arte di Shitao è una certa rarefazione, l'allusività dei suoi dipinti. Se si guarda La montagna sola, il picco rupestre appare come un'isola galleggiante nel vuoto. Lo stesso effetto straniante all'occhio occidentale lo si prova dinanzi a In balia del fiume dove la piccola imbarcazione sembra emergere e fluttuare nel nulla. È quello che Giangiorgio Pasqualotto definisce "l'aspetto più perturbante" per "le consuetudini percettive ed estetiche di un osservatore occidentale". È la presenza del vuoto. Cosa la definisce? Il vuoto - ha scritto Francois Cheng - "non è una presenza inerte, ma è attraversato da respiri che uniscono il mondo visibile (lo spazio dipinto) con quello invisibile". Il vuoto nel pensiero cosmologico cinese non è il nulla dal quale le cose sorgono e nel quale poi spariscono. Piuttosto si declina come la matrice di tutti i fenomeni, la condizione insopprimibile della loro esistenza. Qui per Pasqualotto è ciò che più distingue la pittura cinese: "La necessità di rinunciare al disegno che definisce i contorni delle cose rappresentate. Le figure vanno solo accennate e lasciate aperte, affinché il bianco, ossia il vuoto, non solo scorra dentro e fuori i loro limiti, ma addirittura sciolga i loro contorni".
Che c'è dietro questa "chimera" che sfida le categorie, cognitive e filosofiche, prima che estetiche, della cultura occidentale? Quale distanza separa la pittura occidentale da quella cinese? Se uno degli imperativi del canone occidentale è l'urgenza di strappare alla materia inerte la forma costretta nelle sue profondità, per Shitao questo imperativo non può avere significato. Per il pensiero cosmologico che nutre la sua arte, la materia non è affatto inerte ma è invece interamente pervasa da un'animazione, un soffio, un movimento - il movimento del venire alla forma, del formarsi e del continuo trasformarsi in una processualità infinita - animazione che l'artista è chiamato ad assecondare. Non a caso la natura dipinta da Shitao sembra "tremare", come percorsa da un vento. Ad animarla è il qi, l'energia vitale, il concetto-base di tutto il pensiero cinese che arriva a irradiarsi anche nella pittura. Secondo Zhuangzi, vissuto tra il IV e il III secolo prima dell'era cristiana, "la vita dell'uomo è una concentrazione di soffio-energia (qi): dalla concentrazione risulta la vita, dalla sua dissoluzione risulta la morte". Tutto è qi: dalla montagna al mare, tutto ciò che è preso nel processo di infinita trasformazione con cui il pensiero cinese ha inteso il reale. A mutare è il grado di "condensazione" dell'energia vitale: più concentrata nelle montagne, più "fluida" nell'elemento acquoso. L'arte cinese rifugge da tutto ciò che, in quanto stasi, nega il qi.

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