Bari calling: il rock della nostalgia
Ci sono passioni che fanno soffrire, alle quali ci immoliamo con (sadico) autolesionismo. Si soffre e basta, e più si soffre e più ci si appassiona. Poi ci sono altre passioni, che mettono le ali, sbucciano la scorza di dolore che ci riveste, lasciando solo la polpa, rara preziosa ed estatica: la felicità. Non possiamo rinunciare né alle une né alle altre. Quelle passioni, per Pierluigi De Palma, di mestiere avvocato, sono - in ordine di apparizione - due. Prima passione: il calcio (l’amore autolesionista in questo caso ha i colori giallorossi della Roma, la squadra “più irrisolta della storia dello sport. La squadra che detiene il record mondiale di secondi posti in campionato, una specie di Toto Cutugno del calcio. La squadra che ha perso una finale di Coppa dei Campioni, in casa, ai rigori.”). Seconda passione: la musica, nella voce e fattezze in particolare di Bruce Springsteen, icona, mentore e maestro di intere generazione di rockettari (per inciso alla seconda passione partecipa, altrettanto beatamente, chi scrive) e di Bob Dylan, colui che aprì le acque della vita dell’autore, dividendo il prima dal dopo (“Fu un attimo: in un secondo, il mondo precedente sparì per sempre, l’infanzia si ritirò e Bob Dylan si prese tutta la scena, tutti i giorni, tutte le ore”). I due, l’intellettuale e il romantico, il futuro premio Nobel e l’incendiario di stadi, si insediano saldamente nella vita dell’autore: “Bob Dylan era mio padre, Bruce mio fratello. Bob Dylan era il mio cervello, Bruce il mio cuore. Dylan era il pensiero, Bruce era l’urlo dei miei vent’anni. Bob Dylan era distante, inavvicinabile; Bruce era accanto a me”.
Volete leggere l’autobiografia – leggera, commossa, allo stesso tempo pensosa e divertente - di una generazione “irrisolta”, quella degli attuali cinquantenni, che veleggia ansiosa verso la boa della maturità, alle prese con il fatidico momento del “bilancio della propria vita”, sospesa, come nessuna mai prima, tra il dovere e, appunto, il desiderio di abbandonarsi alle irrefrenabili passioni? Allora leggete Bari calling. Perché la storia di De Palma ha davvero una vocazione, uno spessore generazionale. A partire proprio dall’amore “identitario” per la musica. “A differenza del calcio, la musica mi ha solo reso immensamente felice. È l’unica cosa che mi ha sempre fatto sentire leggero. Mi ha sempre restituito la mia vera identità, nessun trucco, nessuna difesa. Forse perché l’ho scelta io, non mi è arrivata da nessuno, né consigliata né imposta. Non era la cosa da dover fare, la scelta giusta per compiacere. Era ed è casa mia, solo mia. Il mio territorio, la mia scoperta. Il mio amore. Mi ha portato le parole che avrei voluto dire, mi ha assolto dalle mie scarse letture; mi ha regalato la vita istintiva che spesso non sono stato in grado di vivere e mi ha donato occhi lucidi e divertimento sfrenato, speranze, passioni e sogni”.
Bari calling è un atto di amore, un commosso grazie, un’onda di gratitudine per “un’infanzia meravigliosa” e per le figure che l’hanno resa possibile: un microcosmo calmo, rassicurante, fitto di amore, non intaccato (ancora) dalla disillusione. Una cintura di amore che non corazza contro gli urti della vita ma lascia intatto un nocciolo di autenticità. C’è il Natale nella casa di famiglia a Bari, bulimico, traboccante di affetti e presenze, scandito da rituali antichi e coronato, per l’allora bambino, dal “più bel gioco che sia mai stato inventato”, il Subbuteo. C’è la morte dei propri genitori, narrata con delicatezza, il dolore terribile si stempera nel ritrovato senso di appartenenza (alla città e alla comunità). Ci sono i primi tentativi di farsi strada nel giornalismo, una strada amata e (purtroppo) abbandonata.
De Palma si muove con agilità e leggerezza nel suo “piccolo mondo antico”, così vicino e familiare a chi lo legge. Bari, Roma, la nostalgia, il futuro, la musica, l’infanzia, la corsa (un po’ recalcitrante) verso la maturità. Un’epopea minima che strappa tanti sorrisi. E anche qualche lacrima. (Pubblicato su Avvenire 28/06/2020)
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