La rivincita del potere

È un'esperienza inedita. Straniante. L'intrusione massiccia, violenta, del “potere” nella vita (nella vita di tutti). Tralasciamo le considerazioni sulla quarantena e su come essa poteva essere declinata (per renderla ad esempio meno sadica, perché non servisse a nascondere la paralisi della politica, etc etc: davvero era necessario passare attraverso una normativizzazione così pervasiva?). Veniamo al fatto bruto. E il fatto bruto è stata una sospensione della libertà. Dal dopoguerra nessuna generazione – neanche quella investita dal terrorismo - ha conosciuto una simile abrogazione generalizzata. Nonostante tutte le banalizzazioni (“che sarà mai stare a casa”), le sublimazioni (“la quarantena rende possibile il viaggio dentro se stessi”), le derive panico-apocalittiche (“dopo il virus nulla sarà uguale a prima”), si tratta di un fatto violento, di una reclusione domiciliare che amputa (lo ripetiamo, violentemente) le dimensioni relazionali, simboliche, affettive che non sono semplici accessori, prolungamenti o protesi della vita ma ne costituiscono la trama più intima. Per non parlare della mistificazione che scambia la salute - un delicato e mobile equilibro tra la componente fisiologica e quella psichica e relazionale - con la sicurezza – il sottrarsi a ogni possibile scambio, contatto con l'esterno.

Il lockdown, motivato e giustificato da necessità sanitarie, è stato accompagnato da un “nuovo” linguaggio politico che si è abbattuto sui cittadini. La politica, non solo ha puntato sulla colpevolizzazione dei cittadini – prima si impone un codice assolutamente implausibile, poi si lamenta della sua violazione e si usano le violazioni per introdurre o annunciare nuove strette - , ma ha anche adottato un linguaggio aggressivo, intimidatorio, minaccioso, al limite dell'insulto nei confronti dei cittadini-elettori. Si tratta di un capovolgimento. Di una retorica del tutto nuova. E sorprendente. Ma in cosa è nuovo questo linguaggio?
Per cercare di mettere a fuoco questa novità dobbiamo prendere in considerazione i due capisaldi della comunicazione che hanno dominato la recente vita politica italiana.

Primo elemento: il turpiloquio. Ci soccorrono i 5 Stelle. La formazione nata dal duo Grillo-Casaleggio ha costruito la sua fortuna sulla teatralizzazione dell'insulto. Il “vaffa” di Grillo ha ereditato le monetine lanciate contro Craxi, il crollo della prima repubblica, il dito medio di Bossi per sdoganare e portare sulla scena pubblica il nuovo potere dei cittadini, un potere fino a quel momento esercitato solo privatamente (e al bar o sui treni). I cittadini hanno il diritto, di insultare, ridicolizzare e (possibilmente) dimissionare la classe politica. Il turpiloquio è loro. L'insulto spetta a loro. Il vaffanculo diventa un'arma politica. Questo elemento ha preparato lo spazio alla dottrina dell'uno vale uno, ha arato, insomma” il terreno per la retorica grillina.

L'altro caposaldo, intrecciato al primo, è plasticamente rappresentato dalla canottiera di Bossi, per citare Belpoliti. Si tratta di una lunga stagione politica che ha lavorato per denigrare, abbassare, macchiare i simboli paludati della politica. Linguaggio, abbigliamento, corpo. Basta confrontare la ieratica presenza di un Berlinguer con il celodurismo di Bossi per misurare quanto profondo (e traumatico) sia stato il cambiamento avvenuto. A quale intenzione obbedisce questo registro? I cittadini-elettori vanno blanditi, sedotti. L'abbassamento dei toni, del linguaggio, dello stile serve a questo: ad abbattere la distanza tra politica (tra i leader) e cittadini. “Sono come te, parlo come te, mangio come te, insulto come te”: è l'operazione Salvini, data in pasto (non solo metaforicamente, ma anche realmente: i pranzi consumati dal leader della Lega a favore dei social) ai cittadini-seguaci-elettori. Un continuo abbassamento – se Grillo sdogana il vaffa, la Lega ha sfruttato l'anti meridionalismo, da sempre praticato ma da sempre tenacemente coperto da interdetto sociale - per incollarsi al cittadino. Ai suoi (presunti) umori. Al suo voto.
Entrambi questi elementi sono debitori di quel formidabile apripista che è stato Silvio Berlusconi. L'incarnazione della “democrazia dello spettacolo”. L'intrattenimento (con le sue presenze, le sue lusinghe, le sue merci) usato come arma di seduzione di massa.

Ebbene l'irruzione del virus ha capovolto, sovvertito, cancellato tutto questo. Ha imposto un cambio di registro. Basta blandire, ora bisogna minacciare. Basta sedurre, ora bisogna sgridare (sgridare per sedurre, in alcuni casi). I cittadini-elettori sono investiti da un profluvio di “manganellate” virtuali (e, in misura ridotta, da multe reali). Una regressione. Un'operazione tutt'altro che neutra. Serve per far arretrare il cittadino a livello di suddito. E funziona terribilmente bene.

Campioni dello sdoganamento di questa retorica – pur con accenti e stili diversi - sono i governatori (ma anche alcuni sindaci non scherzano). Si va dal presidente della Liguria Toti che bolla come “comportamento da idioti” quello di affollare le strade, a quello pugliese Emiliano che “aggredisce” i fuori sede che rientrano colpevoli di portare il contagio, per arrivare al timoniere della Lombardia che, con fare paternalistico, dice ai lombardi: se non lo capite con le buone “tra poco bisognerà cambiare il tono”. Lo scettro della derisione, nella comunicazione mediatica, è passato dai cittadini ai politici.
Ma il primato in questa comunicazione capovolta spetta al governatore della Campania, De Luca. C'è l'imbarazzo della scelta. Si va dalla minaccia di usare il lanciafiamme contro favoleggiate feste di lauree, al monito “nessuno pensi di rilassarsi a Pasqua”, all'invito “a rimanere a casa a fare la pastiera”, al bollare come “gravissimo il sì alle passeggiate”, alla minaccia di interdire ai lombardi il territorio campano. Certo, per l'ex sindaco di Salerno, si tratta di una vocazione antica. De Luca fiuta la situazione e ne approfitta. Probabilmente non gli sembra vero. Può mettersi in scena. E cosa mette in scena lo sceriffo? La sua maschera mescola vari ingredienti: l'uomo forte (con espressioni volontariamente parodiche), l'intrattenimento berlusconiano eletto a metodo di comunicazione, il tutto condito con un po' di (pseudo) comicità napoletana.
Insomma il tempo della complicità, dell'ammiccamento, è finito. Per i cittadini è il tempo degli insulti.

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