Mio padre odiava il rock'n' roll (Arcana)
NEL LABIRINTO (DELLA MEMORIA)
Some devil is stuck inside of me
I cannot set it free
I wish, I wish I was dead and you were grieving
Just so that you could know
Some angel is stuck inside of me
But I cannot set you free
I cannot set it free
I wish, I wish I was dead and you were grieving
Just so that you could know
Some angel is stuck inside of me
But I cannot set you free
DAVE MATTHEWS, Some Devil
Nino, terzo
figlio (dopo Franco e Leandra, detta Lea) di Ersilia (maestra) e Erasmo
(militare sottoufficiale della Marina). Mite e gentile la prima, prepotente e
despota il secondo (almeno così vuole la leggenda familiare, tramandata non dal
testimone oculare, vale a dire mio padre, ma dalla depositaria delle sue
confidenze, mia madre). Suddetta
leggenda vuole che il nonno abbia tiranneggiato la vita dei tre figli e,
presumo, anche quella della moglie, piegando al suo volere tutte le loro
scelte, matrimoni compresi. Solo mio padre sarebbe riuscito a sgusciare via
dalle maglie del controllo paterno, rese più larghe dall’età avanzata del
nonno. Come tutti i figli che hanno la fortuna di non essere i primi e di non
inaugurare la serie variabile della fratellanza, Nino si sarebbe avvantaggiato
della sua posizione più defilata di terzo, rosicando piccoli spazi di libertà
che ai due suoi fratelli non furono concessi, complice forse anche un carattere
più brillante e meno incline al martirio. Nonostante questo (almeno a sentire
mia madre), Nino ha sofferto come un cane l’invadenza del
padre-militare-despota. Già anziano, mio padre ha rammendato la trama dei
ricordi, omettendo intere parti del suo vissuto. È strana la memoria, è
regolata da meccanismi bizzarri. Interi blocchi si inabissano, alcuni
riemergono all’improvviso, altri giacciono a profondità ormai inaccessibili.
Lontani. Muti. E perduti. Mio padre ha ripulito la memoria, allontanato dalla
figura di chi lo aveva messo al mondo tutto ciò che la sporcava e che, in
qualche modo, lo aveva ferito. Per non riconoscere il male che abbiamo subito
(e che abbiamo subito dalle persone che più amiamo), trucchiamo il ricordo,
prendiamo un invisibile bisturi e asportiamo tutto quello che non abbiamo la
forza di guardare negli occhi. Anziché perdonare quello che ci ha offeso (ma
per perdonarlo dobbiamo tenerlo bene presente) lo rimuoviamo. E alla fine, in
questo modo, tradiamo le persone che amiamo. Perché si ama solo nella verità di
quel che si è, anche del male che facciamo, e siamo. Ma, forse, siamo capaci
solo di amare un’immagine diminuita, ripulita, falsata dell’altro. E, allo
stesso tempo, di noi stessi.
Faceva
parte, mio padre, di una generazione che si è trovata a cavallo tra due
modelli: quello incarnato dai loro padri, padri inavvicinabili, autoritari al
limite (e a volte anche oltre) della crudeltà, incarnazioni dell’autorità, la
cui parola era legge e legge assoluta. E i padri che avrebbero voluto essere,
teneri, amorosi, materni, i padri che siamo diventati, noi, i loro figli, i
“padri-mammi”. Mio padre ha provato, a staccarsi di dosso l’impronta paterna,
per anni forse è riuscito a essere il genitore che desiderava essere. Attento,
fedele, generoso. Poi, quando noi figli siamo cresciuti, quando il rapporto con
mia madre si è incrinato fino a spezzarsi, ha rinunciato, è arretrato, è
ripiegato dentro l’abisso della sua infanzia. Quando la sua mente si è
sfaldata, e gli strati esterni che la rivestivano sono caduti a uno a uno, come
le sfoglie di una cipolla, è rimasto solo un nucleo incandescente, primitivo,
violento, abitato da fantasmi osceni. In difficoltà, incapace di afferrare le
richieste di amore dei suoi figli, incapace di misurarsi con il cambiamento,
mio padre ha ceduto, è tornato al modello di suo padre, è stato risucchiato
dalla stessa sofferenza che lo aveva flagellato da ragazzo. Ha finito per
assumere quel modello. È diventato autoritario, incapace di ascolto, crudele.
Quando vuoi
guadagnare l’amore di chi non ti sa amare, finisci per diventare come lui.
Finisci per imitarne i passi. Senza accorgertene, lasci che la sua ferita
diventi la tua. Scavi dentro di te un buco profondo e lì, in quella caverna
buia e inanimata, soffiata da venti gelidi, tra spifferi infernali, lasci cha
si istalli il disamore di chi non è riuscito ad amarti. Copi il suo disamore, lo
scambi per amore e il gioco è fatto: lo hai assolto. Finisci per guardarti con
gli occhi della bestia che si è acquattata dentro di te. Non sai più dove
inizia lei e finisci tu. In quella matassa ci resti avviluppato, imprigionato
come la mosca nella ragnatela. La bestia dice che non meriti di essere amato e
tu fai di tutto per distruggere quel che resta di te. E per darle ragione.
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