La riscossa del vinile. A colloquio con Emiliano Bazzanella
Cosa c'è dietro la riscossa del vinile? Si tratta davvero di un ritorno a un altro modo di ascolto e di fruizione della musica e dell'oggetto? Lo abbiamo chiesto al filosofo e artista visivo Emiliano Bazzanella.
La riscossa del vinile può essere letta come una rivincita dell'oggetto sull'immateriale (mp3, streaming) e sulla versione miniaturizzata (e algida) dell'oggetto stesso (il Cd)?
Originariamente il CD si è proposto come l’ “uovo di Colombo” di quel mercato HiFi che negli anni Settanta costituisce uno dei grandi propulsori per la tecnologia elettronica. C’erano molte speranze e, forse, molte illusioni: con il CD sarebbero scomparse tutte le ansie degli appassionati dell’“ascolto fedele”, ansie dovute soprattutto ai fruscii di fondo e all’usurabilità dei vecchi dischi in vinile. D’altronde il CD si colloca all’interno di quel processo rivoluzionario che è stata la digitalizzazione, anzi ne è forse stato l’antesignano: con la tecnologia digitale i dati divengono ripetibili, trasferibili e, soprattutto, controllabili e manipolabili.
Tutto si riduce a composizioni binarie di numeri (0, 1) che possono essere ampliate, compresse, trasformate. Allo stesso tempo si dispiegano un nuovo mondo economico e un nuovo mercato, tanto da avviare lo stesso CD all’obsolescenza a causa dello sviluppo delle tecniche di trasferimento-dati via internet. In questa prospettiva il CD marca un discrimine decisivo: dall’oggetto-merce si trasla progressivamente verso l’oggetto-informazione. La dimensione digitale incarnata dal CD corrisponde infatti alla tendenza del capitalismo verso la smaterializzazione delle merci: esse non sono soltanto delle merci-feticcio il cui unico valore è quello di scambio (e quindi quello simbolico), ma sono divenute in sé delle merci quasi-inesistenti, dei complessi di dati accumulabili e commerciabili.
Sussistono tuttavia una controtendenza e un ritorno, sempre interni alla dinamica dei consumi, per cui l’uomo ha ricominciato ad apprezzare gli oggetti nella loro materialità e consistenza. È come se dopo la sbornia digitale si stessero aprendo nuovi spazi di sobrietà: sta accadendo per il disco in vinile, ma accadrà anche nell’ambito della fotografia digitale ove, dopo la sparizione delle macchine reflex analogiche, sta riprendendo fiato la produzione delle tradizionali pellicole fotosensibili. Ad un eccesso informativo dovuto alla smaterializzazione dei dati e ad un progressivo disallineamento rispetto alla realtà, consegue quasi necessariamente un ritorno alla rarità dell’oggetto singolare, alla sua concretezza irriproducibile.
La rivincita del vinile può essere letta come il ritorno dell'opera (l'album) rispetto al frammento e alla scheggia (la singola canzone)?
L’epoca contemporanea sembra aver subito una radicale mutazione del nostro concetto di “tempo”. Infatti al tempo-lavoro di marxiana memoria, prolungatosi fino agli anni del dopoguerra e del boom economico, ora si sta imponendo una nuova dimensione temporale, cioè quel tempo-consumo in cui il tempo-libero, sorto grazie all’automatizzazione dei processi lavorativi, risulta ormai occupato da altre attività inserite in un meccanismo consumistico. Per questa ragione il tempo odierno è una sorta di tempo-evento, fibrillatorio, compulsivo, tendenzialmente senza memoria. Non c’è alcuno spazio per l’otium, ma l’intera nostra esistenza si è riempita di nuove occupazioni e di nuovi affaccendamenti. Quando ad esempio usiamo i social, messaggiamo, giochiamo al video-game, chattiamo, navighiamo non passiamo semplicemente il tempo libero, ma letteralmente “consumiamo”: in ogni trasferimento di bit di cui si compone la nostra azione sui devices, ciascun bit viene valorizzato non solo in quanto veicolo di informazione, ma anche e soprattutto in quanto veicolo economico.
La fruizione della musica ha risentito di questo decorso consumistico: dai brani che potevano durare sino a dieci o quindici minuti (mi vengono in mente la suite di Atom Earth Mother dei Pink Floyd o The Bells di Lou Reed), si è passati ai tre minuti e mezzo quale misura standard commerciale, in una sorta di fast-food musicale. Il ritorno così prorompente del disco in vinile ci sta però suggerendo che questa dimensione “fast” si sta usurando, mentre si sta profilando quella dimensione “slow” ormai quasi mondializzata per quanto riguarda l’alimentazione. L’album è il frutto di ciò che oggi si definisce concept, ossia un pensiero, un progetto che si concretizza in una serie di composizioni musicali; esso abbisogna di una certa lentezza, di un certo tempo, di una certa ampiezza di vedute sia da parte della produzione che della fruizione. È in assoluta controtendenza rispetto alla dimensione-spot del tempo-consumo che stiamo vivendo quotidianamente. Dobbiamo iniziare a riflettere su controtendenze di questo tipo, poiché costituiscono una base effettiva sulla quale costruire un tempo diverso, più sobrio, più rallentato e più “pensato”.
Siamo davanti alla rivincita di una forma di una gestualità più articolata rispetto al semplice comando digitale?
Rispetto al cosiddetto analogico, dobbiamo renderci conto che il digitale implica paradossalmente un impoverimento di dati. La manipolabilità dell’informazione e la possibilità di alterarla e aumentarla, ha dunque i suoi costi, anche energetici. Essa deriva da una perdita. Ad esempio il rumore di fondo delle sale di registrazione e della riproduzione in vinile possiede in effetti una corporeità fatta di frequenze sonore che il digitale scarta e cancella, mentre l’analogico riproduce, anche se al di sotto della percettibilità cosciente. Si tratta di un circolo vizioso: il passaggio dall’analogico al digitale depaupera e impoverisce, pur garantendo un maggiore controllo dei dati; il digitale poi, successivamente, ricostruisce la realtà “impoverita”, implementandola fittiziamente con la tecnologia dell’augmented reality. L’impoverimento del digitale riguarda anche la sua fruizione, divenuta sempre più “pigra”: premi un pulsante sensorizzato e s’attiva subito la tua playlist preferita, ovunque tu sia, in macchina, facendo jogging, in cucina. Si è perduta ogni ritualità del consumo, cioè la percezione che il consumo non è fine a se stesso ma implica una comunità, una serie di azioni prestabilite, uno spazio “rituale”, e così via. In questo senso il “consumo” del vinile sembra recuperare anche questa dimensione non proprio accessoria, suggerendo forse la possibilità di un nuovo stile di consumo, più lento e meno solitario, ma anche più ricco, più consapevole e più denso di sensazioni.
La riscossa del vinile può essere letta come una rivincita dell'oggetto sull'immateriale (mp3, streaming) e sulla versione miniaturizzata (e algida) dell'oggetto stesso (il Cd)?
Originariamente il CD si è proposto come l’ “uovo di Colombo” di quel mercato HiFi che negli anni Settanta costituisce uno dei grandi propulsori per la tecnologia elettronica. C’erano molte speranze e, forse, molte illusioni: con il CD sarebbero scomparse tutte le ansie degli appassionati dell’“ascolto fedele”, ansie dovute soprattutto ai fruscii di fondo e all’usurabilità dei vecchi dischi in vinile. D’altronde il CD si colloca all’interno di quel processo rivoluzionario che è stata la digitalizzazione, anzi ne è forse stato l’antesignano: con la tecnologia digitale i dati divengono ripetibili, trasferibili e, soprattutto, controllabili e manipolabili.
Tutto si riduce a composizioni binarie di numeri (0, 1) che possono essere ampliate, compresse, trasformate. Allo stesso tempo si dispiegano un nuovo mondo economico e un nuovo mercato, tanto da avviare lo stesso CD all’obsolescenza a causa dello sviluppo delle tecniche di trasferimento-dati via internet. In questa prospettiva il CD marca un discrimine decisivo: dall’oggetto-merce si trasla progressivamente verso l’oggetto-informazione. La dimensione digitale incarnata dal CD corrisponde infatti alla tendenza del capitalismo verso la smaterializzazione delle merci: esse non sono soltanto delle merci-feticcio il cui unico valore è quello di scambio (e quindi quello simbolico), ma sono divenute in sé delle merci quasi-inesistenti, dei complessi di dati accumulabili e commerciabili.
Sussistono tuttavia una controtendenza e un ritorno, sempre interni alla dinamica dei consumi, per cui l’uomo ha ricominciato ad apprezzare gli oggetti nella loro materialità e consistenza. È come se dopo la sbornia digitale si stessero aprendo nuovi spazi di sobrietà: sta accadendo per il disco in vinile, ma accadrà anche nell’ambito della fotografia digitale ove, dopo la sparizione delle macchine reflex analogiche, sta riprendendo fiato la produzione delle tradizionali pellicole fotosensibili. Ad un eccesso informativo dovuto alla smaterializzazione dei dati e ad un progressivo disallineamento rispetto alla realtà, consegue quasi necessariamente un ritorno alla rarità dell’oggetto singolare, alla sua concretezza irriproducibile.
La rivincita del vinile può essere letta come il ritorno dell'opera (l'album) rispetto al frammento e alla scheggia (la singola canzone)?
L’epoca contemporanea sembra aver subito una radicale mutazione del nostro concetto di “tempo”. Infatti al tempo-lavoro di marxiana memoria, prolungatosi fino agli anni del dopoguerra e del boom economico, ora si sta imponendo una nuova dimensione temporale, cioè quel tempo-consumo in cui il tempo-libero, sorto grazie all’automatizzazione dei processi lavorativi, risulta ormai occupato da altre attività inserite in un meccanismo consumistico. Per questa ragione il tempo odierno è una sorta di tempo-evento, fibrillatorio, compulsivo, tendenzialmente senza memoria. Non c’è alcuno spazio per l’otium, ma l’intera nostra esistenza si è riempita di nuove occupazioni e di nuovi affaccendamenti. Quando ad esempio usiamo i social, messaggiamo, giochiamo al video-game, chattiamo, navighiamo non passiamo semplicemente il tempo libero, ma letteralmente “consumiamo”: in ogni trasferimento di bit di cui si compone la nostra azione sui devices, ciascun bit viene valorizzato non solo in quanto veicolo di informazione, ma anche e soprattutto in quanto veicolo economico.
La fruizione della musica ha risentito di questo decorso consumistico: dai brani che potevano durare sino a dieci o quindici minuti (mi vengono in mente la suite di Atom Earth Mother dei Pink Floyd o The Bells di Lou Reed), si è passati ai tre minuti e mezzo quale misura standard commerciale, in una sorta di fast-food musicale. Il ritorno così prorompente del disco in vinile ci sta però suggerendo che questa dimensione “fast” si sta usurando, mentre si sta profilando quella dimensione “slow” ormai quasi mondializzata per quanto riguarda l’alimentazione. L’album è il frutto di ciò che oggi si definisce concept, ossia un pensiero, un progetto che si concretizza in una serie di composizioni musicali; esso abbisogna di una certa lentezza, di un certo tempo, di una certa ampiezza di vedute sia da parte della produzione che della fruizione. È in assoluta controtendenza rispetto alla dimensione-spot del tempo-consumo che stiamo vivendo quotidianamente. Dobbiamo iniziare a riflettere su controtendenze di questo tipo, poiché costituiscono una base effettiva sulla quale costruire un tempo diverso, più sobrio, più rallentato e più “pensato”.
Siamo davanti alla rivincita di una forma di una gestualità più articolata rispetto al semplice comando digitale?
Rispetto al cosiddetto analogico, dobbiamo renderci conto che il digitale implica paradossalmente un impoverimento di dati. La manipolabilità dell’informazione e la possibilità di alterarla e aumentarla, ha dunque i suoi costi, anche energetici. Essa deriva da una perdita. Ad esempio il rumore di fondo delle sale di registrazione e della riproduzione in vinile possiede in effetti una corporeità fatta di frequenze sonore che il digitale scarta e cancella, mentre l’analogico riproduce, anche se al di sotto della percettibilità cosciente. Si tratta di un circolo vizioso: il passaggio dall’analogico al digitale depaupera e impoverisce, pur garantendo un maggiore controllo dei dati; il digitale poi, successivamente, ricostruisce la realtà “impoverita”, implementandola fittiziamente con la tecnologia dell’augmented reality. L’impoverimento del digitale riguarda anche la sua fruizione, divenuta sempre più “pigra”: premi un pulsante sensorizzato e s’attiva subito la tua playlist preferita, ovunque tu sia, in macchina, facendo jogging, in cucina. Si è perduta ogni ritualità del consumo, cioè la percezione che il consumo non è fine a se stesso ma implica una comunità, una serie di azioni prestabilite, uno spazio “rituale”, e così via. In questo senso il “consumo” del vinile sembra recuperare anche questa dimensione non proprio accessoria, suggerendo forse la possibilità di un nuovo stile di consumo, più lento e meno solitario, ma anche più ricco, più consapevole e più denso di sensazioni.
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