Bombay, archeologia del futuro


Appena sbarcato dall’aereo che lo ha condotto nel gigante asiatico, Giorgio Manganelli è travolto da una zaffata densa: “Questa – scrive - è l’aria dell’India, un’aria sporca e vitale, purulenta e dolciastra, putrefatta e infantile”. Quando arriva a Bombay, Pier Paolo Pasolini è sopraffatto da una visione: “Monticelli fangosi, rossastri, cadaverici, e una frana infinita di catapecchie, depositi, miseri quartieri nuovi: parevano le viscere di un animale squartato”. E Alberto Moravia crede di scoprire nel paese che lo accoglie un gioco di specchi, la rifrazione tra il reale e il fantastico: “L’India è una concezione della vita, tutto ciò che sembra reale non è reale e tutto ciò che non sembra reale è reale”.

Quale immagine ci restituisce oggi l’India, un’India liberata dal ricamo di esotismo, fascinazione, incomprensione con il quale la rivestirono gli scrittori italiani? Gyan Prakash, docente all’Università di Princeton, offre uno “scavo archeologico” delle immagini di Bombay, città simbolo per eccellenza dell’India, gettando uno sguardo a metà tra lo storico e l’antropologo nell’intrico delle narrazioni che la avvolgono, “un’esplorazione dei resti materiali della sua storia”. Che ritratto di Bombay balza fuori da questa indagine? Città prismatica nella quale il nuovo esplode accanto al vecchio e il fatiscente tarla silenziosamente il futuristico, il bello si salda all’osceno e la ricchezza è inseparabile alla miseria, città-laboratorio nella quale le tracce della colonizzazione - prima portoghese poi inglese - resistono alla furia di chi vuole cancellarle (la città ha cambiato nome da Bombay a Mumbai nel 1995). Metropoli “serpente” che muta pelle di continuo, caleidoscopio di oltre 13 milioni di abitanti, “città mostro”, come la definisce Prakash, “un puzzle di zone distinte a seconda della comunità che ospita”. Prima polo manifatturiero, poi industriale, poi post-industriale, città di immigrazione nella quale culture etnie religioni formano una trama complessa e stratificata, per l’autore Bombay sembra aver smarrito la sua anima cosmopolita, aggredita da un processo violento di rietnicizzazione. La città è diventa “color zafferano”, proprio mentre una serie di catastrofi ne svelava la vulnerabilità: prima i nubifragi del 2005, poi le bombe sui treni del 2006, quindi l’attacco terroristico “in grande stile” del 2008. Lo zafferano è il colore simbolo del movimento di estrema destra dello Shiv Sena, il colore simbolo degli hindu e dei nazionalisti hindu. Una “invasione” che ha trasformato la metropoli, sovrapponendo alla sua anima cosmopolita e ospitale quella che l’autore chiama l’“hinduizzazione” dilagante, un verbo fatto di nativismo, populismo, intolleranza. “Mumbai è caratterizzata dagli eccessi: eccesso di potere e ambizione, di sfruttamento e abuso, di aspirazione alla giustizia e all’uguaglianza nonostante le terribili ingiustizie e ineguaglianze”. Una “città-mostro” che sembra guardarci dal futuro.


Gyan Prakash, La città color zafferano. Bombay tra metropoli e mito, pag.286, euro 19

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