La Cina e la trappola Iran

È un banco di prova essenziale per saggiare la vocazione "imperiale" della Cina. Perché il groviglio iraniano - da un lato l'incubo nucleare, dall'altra la minaccia di chiudere l'imbuto dello Stretto di Hormuz - tocca da vicino due "nervi scoperti" di Pechino. Primo: la sua politica energetica e dunque la sopravvivenza stessa della potenza d'urto della sua economia che dal petrolio acquistato all'estero dipende totalmente. Secondo: la capacità cinese di muoversi con autorevolezza anche in scenari "lontani da casa", come antagonista reale - politica e non solo economica - degli Stati Uniti.
E la Cina si muove. Il premier Wen Jiabao, in sei giorni, toccherà Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti. È la prima volta di un premier cinese a Riad da vent'anni a questa parte, la visita di più alto livello dopo il tour diplomatico del presidente Hu Jintao che sbarcò proprio in Arabia Saudita nel 2009. Gli analisti non hanno dubbi.  La missione mira a sganciare, almeno in parte, il Dragone dal petrolio iraniano. E cercare "canali" alternativi. I vincoli con Teheran peraltro sono stretti. Come riporta AgiChina24, nei primi nove mesi del 2011 l'Iran ha spedito oltre 20 milioni di tonnellate di greggio in Cina, facendo registrare un aumento di circa un terzo rispetto alle quote dell'anno precedente. Pechino importa da Teheran circa l'11% del petrolio che consuma ogni anno.
Ma non solo. «La metà delle importazioni cinesi di petrolio proviene dal Medio Oriente, per cui l'instabilità della regione è una delle principali preoccupazioni» del Dragone, ha detto al Financial Times Ben Simpfendorfer, fondatore della Silk Road Associates, una società di consulenza basata a Hong Kong. Un eventuale conflitto, che dall'Iran potrebbe contagiare l'intera regione e bloccare le vie di transito del petrolio, potrebbe essere dunque un «disastro» per l'economia del Dragone. Pechino peraltro dipenderà sempre più dalle importazioni. Già oggi importa 217 milioni di tonnellate di petrolio. La dipendenza dalle importazione ha raggiunto quota 49,8% e salirà a quota 76,9% e 82% rispettivamente nel 2020 e nel 2030. Ma non basta. Un dato cattura la "vulnerabilità" cinese: il 40% delle sue importazioni viaggia su mare.
Riad - da sempre ostile a Teheran - diventa allora la sponda più appetibile per Pechino. Le importazioni della Cina di greggio dall'Arabia Saudita sono aumentate costantemente negli ultimi anni. Nei primi 11 mesi del 2011, Riad ha esportato 45,5 milioni di tonnellate, circa un milione di barili al giorno di greggio alla Cina, quasi il 13% rispetto all'anno precedente. E non solo petrolio: secondo dati riportati dal Nixon Center, gli scambi con l'Arabia Saudita sono balzati da quota 5 miliardi del 2002 a 41,8 del 2008. Rapporti sempre più stretti anche con il Qatar, oggi il secondo maggior fornitore di gas dopo l'Australia. Tra gennaio e novembre, il Qatar ha esportato circa 1,8 milioni di tonnellate in Cina, in crescita del 76% rispetto all'anno precedente.
Alla missione di Wen potrebbero non essere estranee le pressioni degli Stati Uniti, sempre più decisi a spingere sul pedale della sanzioni contro l'Iran. La strategia di Washington ha già preso forma: sottrarre clienti a Teheran. E, in questo modo, con un dosaggio di pressioni politiche e danni finanziari, congelare i piani atomici degli Ayatollah. Il mandato del segretario del Tesoro Usa Timothy Geithner, nel suo recente viaggio in Asia, era convincere i partner più fedeli all'America ma anche la controparte cinese a mollare la Repubblica islamica. Con gli alleati il "gioco" è riuscito. Il ministro giapponese degli Esteri Koichiro Gemba è in tour in Medio Oriente, per chiedere ai maggiori paesi produttori di petrolio, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti in testa, di aumentare la produzione di petrolio. Stessa missione per il premier sudcoreano, in cerca di nuovi "fornitori". Ora è la Cina a muoversi.

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