Gli Stretti e gli incubi cinesi

Ci sono due nomi che risuonano come un incubo nelle stanze dei bottoni di Pechino. Sono lo Stretto di Hormuz e lo stretto di Malacca. Il primo, dominato dall’Iran, unisce il Golfo Persico a quello di Oman e al Mar arabico, il secondo – sul quale si affacciano Indonesia, Malaysia e Singapore - collega l’Oceano Indiano al Mar meridionale cinese e all’Oceano Pacifico. Per catturare l’importanza strategica di questi due stretti bastano poche cifre fornite dall'International Energy Agency (Iea) . Attraverso lo stretto di Hormuz transitano 15,5 milioni di barili di petrolio al giorno, il 33 per cento del totale degli idrocarburi che viaggia su nave, il 17 per cento di tutto il petrolio venduto sui mercati mondiali. Più del 75 per cento di queste esportazioni di petrolio è destinato ai mercati asiatici, Cina in testa. Attraverso lo stretto di Malacca poi transitano ogni anno 60mila navi, e circa l’ottanta per cento delle importazioni di petrolio della Cina. Del totale di imbarcazione che transitano nell’Oceano indiano, il 40 per cento è cinese.


Entrambi gli stretti sono dei veri e propri “colli di bottiglia”, peraltro perennemente a rischio pirati. Quello di Hormuz, l’unica via di accesso al Golfo persico, misura nel suo punto più stretto, 36 chilometri. Va poco meglio per lo stretto di Malacca: 54 chilometri. Ed entrambi sono vitali per l’economia cinese. E lo saranno sempre di più se solo si considera che la fame di energia del Dragone è destinata a crescere. Vertiginosamente. Secondo le proiezioni più recenti del U. S. Department of Energy, il consumo energetico cinese crescerà del 133% tra il 2007 e il 2035. Nel 1980 la Cina consumava appena il 3% del petrolio mondiale. Oggi ne inghiotte il 10%, facendo del dragone il secondo più grande consumatore di petrolio al mondo, dopo gli Usa. Nei prossimi 5 anni – come si legge in un rapporto stilato dal The Nixon Center - metà dell’incremento della domanda mondiale di petrolio verrà dall’Asia.
Secondo una stima del Pentagono “al tasso di estrazione attuale la Cina esaurirà le proprie riserve di petrolio, gas naturale e carbone rispettivamente in 7, 22 e 75 anni”. Entro il 2020 si calcola che la domanda cinese di petrolio toccherà quota 12 milioni di barili al giorno, triplicando gli attuali livelli e sorpassando la quota “ingoiata” dagli Usa. Il risultato? Pechino dipenderà sempre più dalle importazioni. Già oggi importa 217milioni di tonnellate di petrolio. La dipendenza dalle importazione ha raggiunto quota 49,8% e salirà a quota 76,9% e 82% rispettivamente nel 2020 e nel 2030. Ma non basta. Un dato cattura la “vulnerabilità” cinese: il 40% delle sue importazioni viaggia su mare.

Il Dragone si muove. E lo fa su uno scenario decisivo per gli equilibri geopolitici del pianeta: il Medio Oriente. Due terzi delle riserve mondiali di petrolio sono concentrate nel Golfo, la regione soddisfa oggi un terzo della domanda totale mondiale. Il metodo del Dragone è ormai collaudato: affari, nessuna ingerenza nelle faccende nazionali, vendita di armi e se serve “protezione” politica (vedi l’appoggio dato all’Iran). Come si legge su The Washington Quarterly, “ il mix potenzialmente esplosivo fatto dalla diminuita volontà della Cina di accettare passivamente la leadership americana e la competizione tra Stati per l’accesso alle risorse energetiche pone una serie di sfide agli interessi Usa nella regione. La presenza in Medio Oriente della Cina è cresciuta negli ultimi anni economicamente, politicamente e strategicamente. La Cina oggi è un nuovo competitor degli Usa”.  I risultati si vedono. Arabia saudita e Iran sono oggi i due principale fornitori di petrolio alla Cina: rispettivamente 725mila barili a l giorno e 425mila. Il volume degli scambi tra la Cina e i Paesi del Golfo è salito a 68miliardi di dollari (2009), un incremento di 5 volte rispetto al 2003 (12 miliardi di dollari). Gli scambi con l’Arabia Saudita sono balzati da quota 5 miliardi del 2002 a 41,8 del 2008.

E qui torna l’incubo degli stretti. Una crisi che coinvolgesse i due “colli di bottiglia” avrebbe una conseguenza immediata: “strozzare” la Cina. Pechino cerca di disinnescare questa mina esplosiva per la sua sicurezza cercando altre vie di approvvigionamento. Il Dragone ha recentemente annunciato la costruzione di oleodotto pipeline, lungo 675 chilometri, che attraverserà il Myanmar per sfociare sull’Oceano Indiano. Ma non solo: la Cina tesse quella che è stata definita la strategia del “filo di perle”, una serie di porti e postazione per garantirsi accessi diretti sull’Oceano indiano: Gwadar in Pakistan, Hambantota in Sri Lanka, Ayab, Cheduba e Bassein in Myanmar, Chittagong in Bangladesh. Il Dragone sperimenta poi il suo potere navale. Controllare militarmente quelle rotte è un vantaggio strategico decisivo. La partita che gli Usa giocano con l’Iran si spiega anche così. L’occasione – formidabile – è arrivata dai ripetuti attacchi dei pirati somali alle imbarcazione che transitano al largo delle coste somale.   (Nel 2010 i pirati nel mondo hanno preso 1.881 ostaggi e sequestrato 53 navi, 49 delle quali al largo delle coste somale). Lo riferisce l'ultimo rapporto dell'International Maritime Bureau Piracy. A ottobre 2009 erano già mille le imbarcazioni scortate dalle navi da guerra cinese. Ogni “intromissione” sull’Oceano indiano è visto dall’India come un attentato alla sicurezza nazionale. Come disse una volta il capo di Stato maggiore della Indian Navy “chi domina l’Oceano Indiano domina l’Asia. Nel XXI secolo il destino del mondo sarà deciso dalle sue acque”. L’India si muove appoggiata dal suo alleato più forte: gli Usa. L’anno scorso i due Paesi hanno tanto un’esercitazione militare (denominata Malabar 10), lunga appunto dieci giorni, nel Mar arabico, la 14esima nella storia delle due marine militari.


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