Veca, elogio dell'incompletezza

Il Novecento è stato segnato dalla terribile esplosione, anche in campo filosofico, dell'idea della "soluzione finale": una "terapia" che liquidasse ogni controversia, appianasse ogni diversità, risolvesse ogni contraddizione. Il filosofo Salvatore Veca rintraccia l'antidoto a ogni pretesa totalizzante nell'idea di incompletezza (L'idea di incompletezza. Quattro lezioni, Feltrinelli, pag. 174, euro 19). Un'incompletezza alla quale è ancorata la nostra esistenza di esseri «prospettici e finiti, per cui può essere, o dovrebbe essere, cruciale trascendere i limiti di una prospettiva inevitabilmente situata e contingente». Proprio perché siamo esseri incompleti, scrive Veca, «possiamo provare la passione e l'amore della sapienza».


Nella sua prima lezione scrive: «Non solo noi dobbiamo scegliere, ma dobbiamo scegliere in un mondo di persistente e spesso accelerata trasformazione». In che modo l'idea di incompletezza può essere una guida per i nostri tempi?
L'essere consapevoli della natura incompleta di qualsivoglia risposta possiamo formulare rende più riflessive e mature le nostre scelte. È necessario essere consapevoli che esse non costituiranno mai la soluzione finale. Questo non riduce l'importanza delle nostre scelte, ma dà loro un tocco più appropriato. Le nostre risposte hanno un'essenziale incompletezza, che io definisco insaturazione. C'è chi ritiene che il riconoscere l'incompletezza delle nostre risposte possa dar vita a una specie di polverone instabile e frammentario, sfociare in un supermarket delle credenze. Non è così: noi siamo tenuti alla più ferma lealtà alle nostre credenze, consapevoli però della loro incompletezza nel tempo.
Il suo elogio dell'incompletezza sottende una visione dinamica dei valori. Come possiamo essere fedeli ai nostri valori e allo stesso tempo "incontrare" gli altri?
Nel libro riporto una battuta di Confucio: abbiamo il dovere di essere leali, fedeli a noi stessi. Siamo tenuti a difendere i valori fondamentali della nostra convivenza, le credenze che scandiscono la nostra esistenza. Ma proprio in quanto chiamati a essere leali a noi stessi, siamo provocati all'attenzione verso gli altri, all'apertura, alla curiositas. È perché siamo leali a noi stessi che possiamo aprirci agli altri.
Lei sostiene le ragioni del pluralismo contro quella del relativismo.
Le cose buone della vita sono più d'una entro di noi, sono più d'una entro la comunità e sono più d'una tra comunità differenti. Il pluralismo comincia nel condominio, non c'è bisogno di pensare al rapporto tra noi e i confuciani o i salafiti. Parte dentro di noi. Sono quelle che io chiamo le piccole guerre civili del sé. Questa idea non ha nulla a che vedere con il relativismo. Il relativismo vuol dire: tu pensi che il meglio sia lo champagne, io penso che il meglio sia il caffè e non c'è altro da dirci.
La sua ricerca ruota attorno a un dato incontrovertibile: l'uomo è istituito nel limite. Che senso dare al limite, come custodire la dimensione creaturale dell'uomo?
L'elogio dell'incompletezza va in tandem con la consapevolezza del nostro essere situati e limitati. Ma non dobbiamo lasciarsi intrappolare dentro una singola idea di incompletezza. Vogliamo metterci alla prova tra persone che hanno credenze diverse? Prendere sul serio l'idea del confronto? Allora è necessario assumere che le nostre credenze trovino il proprio limite proprio nell'incontro con le credenze degli altri. Il riconoscere la nostra incompletezza deriva dal semplice fatto che vi sono altri che hanno altre ragioni, che raccontano altre storie, che cantano altre canzoni.
Lei scrive che «siamo esseri per cui è decisiva la dimensione dell'interrogazione».
Come mostra il libro della Sapienza in noi è costitutivo il perdurare della domanda di senso. Immagini delle persone per le quali non abbia alcun senso il porsi domande o porre domande ad altri: sarebbero strane monadi complete e sature. È invece importante la durevolezza del domandare. L'interrogazione è una costante del nostro modo di vivere. Siamo predatori di senso. Fare delle domande vuol dire cercare delle risposte. Siamo dei predatori di risposte, risposte di senso.
Michel Foucault ha scritto che la filosofia è in qualche modo chiamata a pensare l'impensato. Lei parla di immaginazione filosofica. Quali sono le pratiche a cui affidarsi per coltivare questa curiosità?
Nella mia ricerca delineo un paesaggio abitato dalla figura del coltivatore di memorie e dell'esploratore di connessioni. Il primo prende sul serio la storia, il secondo porta a un alto grado di generalità i risultati della sua indagine per cercare di dire l'ultima parola che si converte sempre nella penultima, data l'idea di incompletezza. Ciascuno di noi vive col pilota automatico innestato. Coltivare l'immaginazione filosofica significa allora il tentativo di poter guardare le cose in altro modo. Le nostre vite sono vite per lo più sul tapis roulant, vita di creature d'abitudine. Proviamo a sospendere la validità di queste abitudini, a guardare le cose in un altro modo come se avessero una luce diversa. Allora c'è un po' di filosofia dappertutto.  (Avvenire - 29/4/11)                                    

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