Tibet, eletta la nuova guida politica
È Lobsang Sangay, giurista e ricercatore all'Università di Harvard, il nuovo primo ministro del governo tibetano in esilio. Il neo eletto, 43 anni, ha superato altri due aspiranti alla carica che assume particolare importanza dopo che lo stesso Dalai Lama, 75 anni, ha rinunciato alle responsabilità politiche conservando solo la funzione di guida spirituale. Sabgay ha ottenuto il 55 per cento degli oltre 49mila voti (aumentati del 50 per cento rispetto alla precedente tornata elettorale del 2006) espressi in oltre 30 Paesi. Nella prima «emozionata» reazione, il nuovo premier ha subito voluto omaggiare il Dalai Lama, ricordando l'esilio a cui è costretto da anni: «Rivolgo un appello a tutti i tibetani ed agli amici del Tibet ad unirsi a me nello sforzo comune per alleviare le sofferenze dei tibetani nel Tibet occupato e per permettere il ritorno di Sua Santità nel posto a cui ha diritto: il Palazzo di Potala».
Come cambia ora la geografia del potere tibetano? E come essa affronterà la "partita" vitale per il Tibet, quella che la contrappone alla Cina, dopo anni di trattative – andate a vuoto - della precedente leadership e, soprattutto, dopo la nuova escalation di violenze che ha come epicentro il monastero di Kirti nel Sichuan? «Farò del mio meglio per avere un dialogo con il governo cinese e risolvere la questione del Tibet pacificamente», ha assicurato Sangay in un'intervista rilasciata il mese scorso. Una cosa è certa: l'elezione sposta molti equilibri all'interno della diaspora tibetana. Anagraficamente, prima di tutto. La differenza di età tra il Dalai Lama e Sangay è netta. L'elezione di un primo ministro laico a sostituzione del precedente premier - Samdhong Rinpoche, un monaco - segna un ulteriore allontanamento dal governo religioso, una mossa peraltro pubblicamente appoggiata dallo stesso Dalai Lama. Secondo Srikanth Kondapalli, professore alla Jawaharlal Nehru University di New Delhi, interpellato dall'agenzia Bloomberg, la nuova leadership dovrà «affrontare forti pressioni a causa della frustrazione nel movimento tibetano», in particolare dei giovani che chiedono una radicalizzazione dello scontro con la Cina e la completa indipendenza del Tibet, contro la posizione più morbida del Dalai Lama, fermo a una maggiore «autonomia» da Pechino.
La strada per Lobsang Sangay è tutt'altro che in discesa. Il Dragone non tollera nulla che possa turbare il «fondamentale principio» che il Tibet «è una parte inalienabile della Cina», come recitava il Libro Bianco sul Tibet del 1992. È il principio «della sovranità e dell'integrità territoriale», uno dei "dogmi" ("core interests") attorno ai quali si è costruita la politica cinese. Il Tibet rivesta anche economicamente un'importanza sempre maggiore per Pechino. Secondo il China Geological Survey, il Tibet custodisce le più grandi riserve di cromo, rame, litio dell'intera Cina: i suoi depositi di minerali avrebbe un valore complessivo di oltre 152 miliardi di dollari. Per l'analista indiano Bahukutumbi Raman la Cina non punta tanto a distruggere il buddismo in sé: «i cinesi stanno cercando di creare un nuovo buddismo in Tibet, che rompa completamente con le credenze e le tradizioni del vero buddismo tibetano. Buddismo sì, buddismo tibetano no: è questo il vero obiettivo cinese».
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