Manga, il Giappone allo specchio

Fu la prima grande invasione. Da Goldrake a Mazinga una generazione di ufo robot si impossessava delle nostre giovani (giovanissime) menti. Con essi il Giappone esplodeva nelle nostre case. Alcuni decenni dopo la conquista si sarebbe ripetuta. Questa volta si trattava non di mostri, ma di mostriciattoli, non di soldati giganteschi dalle bardature massicce ma di piccoli e buffi alieni tascabili, non di scontri mortali ma di gare senza spargimento di sangue. Non Actarus e Hiroshi ma i Pokemon.


Per una nazione uscita a pezzi dalla seconda guerra mondiale, martoriata dalle bombe atomiche, umiliata e vinta, fu una rivincita simbolica. Una fiammata di nazionalismo accompagnò l’invasione planetaria dei robot, nella cui animazione futuristica riviveva l’antica estetica guerriera dei samurai. Ma quei robot destinati a colonizzare il nostro immaginario cosa ci raccontano del Giappone? E più in generale l’intero universo dei manga - o anime – quale specchio ci offrono?

I manga – un “mondo” antico, come mostra Marcello Ghilardi nel suo Filosofia nei manga. Estetica e immaginario nel Giappone contemporaneo (Mimesis) – non è un portato solo giapponese. Non c’è un’identità “pura” nipponica che in qualche modo si riversa nelle strisce. Anzi quel mondo composito – “come nella pittura dei letterati cinesi e giapponesi, il manga mantiene l’integrazione di pittura e calligrafia, di disegno e scrittura”, scrive Ghilardi - nasce da tanti incroci. Non solo i rotoli, ma anche il fumetto americano. Fascinazione, incontro, repulsione sono gli elementi che si agitano dietro e dentro il mondo dei manga.

Ancora più complessa è la generazione posterione alla prima grande ondata. Mentre Actarus e Hiroshi sono incapsulati nei corpi degli ufo con cui guerreggiano ma ne rimangono separati (e la loro identità intatta), i corpi degli eroi e delle eroine a loro successivi sono mutati drammaticamente: simbiotici, uniti e penetrati dalla macchina in una confusione totale tra organico e inorganico, biologico e artificiale. Anche qui non mancano i contatti con quello che avviene in Occidente e in particolare con la generazione degli artisti post-human.

Gli artisti post-human esplorano quella dimensione in cui l’umano entra in contatto con l’altro da sé, in una confusione di mondi (vegetale-animale), di generi (femminile-maschile), di elementi (organico e inorganico). Ma quale corpo? A quale unità essi attentano? “L’oggetto dell’azione di questi artisti, è la trasformazione del corpo, la sua disidentificazione verso altre forme o espressioni in cui il genere e la forma non definiscono più l’essere umano, la sua singolarità e appartenenza. Orlan, che trasforma il profilo del proprio volto attraverso una serie di operazioni chirurgiche; Franko B. che agisce con abrasioni, tagli, sanguinamenti, in modo cruento sulla sua persona; e ancora Stelarc che definisce progressivamente il confine incerto tra uomo e macchina mediante protesi, innesti, interventi meccanici e tecnologici” (Belpoliti, Crolli). Il corpo, messo in scena da questa generazione di artisti, è un corpo segnato, inciso, smembrato, fatto a pezzi. Un corpo sanguinolento, aperto. Lo stesso concetto di arte è travolto da questa “esposizione della diversità, della malattia, del rifiuto” (Francesca Alfano Miglietti, Identità mutanti). La ferita opera il “passaggio dalla rappresentazione al reale”. La trasformazione del corpo in taglio, carne, sangue trascina con sé la metamorfosi “dell’azione in rituale, dello spettatore in carnefice”. L’arte smette di essere un diaframma, di presupporre una distanza tra ciò che viene rappresentato e chi la rappresentata. Si risolve nella messa in scena: autore e opera coincidono. Non è solo un relegato al mondo dell’arte. La protesi, il trapianto, la stessa chirurgia plastica banalizzano questo discorso, rendendolo alla portata di chiunque: sono tutte tappe di un processo di artificializzazione o di denaturalizzazione del corpo, di “una ristrutturazione radicale di quello che fin d’ora abbiamo chiamato corpo” (Esposito, Immunitas).

Ma la scomposizione delle identità (e dei corpi) che avviene nel mondo dei manga riattiva qualcosa di originario del pensiero orientale. La parola a Ghilardi: “Le corazze dei robot, frutto della tecnologia più avanzata, sono improntate ai modelli delle antiche armature; le loro trasformazioni e combinazioni ricordano le vestizioni dei samurai; i combattimenti e le posture assunte riecheggiano gli scontri tra samurai di alto lignaggio; e la messa in scena di vite effimere e transitorie, in scenari fantascientifici o spaziali, è supportata da categorie come quella di in sostanzialità dell’io (muga) e impermanenza (mujo), tipiche della sensibilità buddhista”. E ancora: “Le armi impiegate, in particolare quella che risolve ogni scontro e viene evocata a gran voce dal pilota, sembrano rievocare l’idea tipicamente scintoista che ogni strumento può veicolare il ki (l’energia, il soffio vitale, il respiro, lo spirito che anima la materia) ed essere ricettacolo per i kami, potenze naturali o spiriti divini che circolano ovunque. Il divino non abita soltanto l’ambito della natura, o le antiche opere di arte e artigianato, ma si rivela anche nelle inattese pieghe della tecnologia e della scienza”.

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