La curiosità di Michel Foucault

Che cosa è la curiosità? Quali paesaggi suscita? Quali smottamenti del pensiero produce? Quali familiarità contesta? E ancora: cosa ha a che fare la curiosità con la filosofia? I latini, come svela l’etimologia della parola, hanno intuito la stretta parentela tra la curiosità e la cura. Il curioso è colui che ha premura, che si prende cura. Michel Foucault ha pensato e vissuto la curiosità come un esercizio filosofico perenne. Una curiosità che ha animato non solo i suoi lavori, ma che è debordata in un profluvio di scritti, articoli, polemiche, interviste riproposti in parte dall’editore Marietti: un esercizio di “giornalismo filosofico“, come lo ha definito lo stesso filosofo francese. Un “esercizio” che abbraccia una casistica ampia: dalla nascita della prigione ai processi di medicalizzazione, dalla questione del soggetto ai regimi di verità.


Ma come si pratica la curiosità? “La curiosità – ha scritto Foucault – evoca la “cura”, l’attenzione che si presta a quello che esiste o che potrebbe esistere”. Il reale e il possibile, dunque: i due registri sui quali il filosofo “gioca” la sua curiosità. In questo rimando tra il reale e il possibile è sottesa, come in un nocciolo, tutta la portata che ha per Foucault il discorso filosofico. Il pensiero che vale la pena praticare non è quello che “cerca di assimilare ciò che conviene conoscere, ma quello che consente di smarrire le proprie certezze”. La curiosità che lo anima “non si immobilizza davanti al reale”, ma cerca di “disfarsi di ciò che è familiare”, si esercita “a guardare le cose diversamente”. Il pensiero allora ha a che fare con lo spaesamento, con la capacità di dislocare, di esporre il familiare all’inusitato, di inquietare. Per Foucault “il sapere non è fatto per consolare: esso disillude, rende inquieti, incide, ferisce”. Un pensiero che non rimane alieno rispetto al reale. Come nota Mauro Bertani, nella postafazione di “Discipline, Poteri, Verità”, per Foucault “il pensiero, le idee, i discorsi hanno una forza materiale“. Il pensiero non appartiene a un piano metastorico, né è staccato dall’esistenza: anzi la invade, la permea, la stilizza. Per questo il filosofo francese ha parlato dei suoi libri e delle sue ricerche come di “frammenti di autobiografia”.

A chi – come nella polemica con gli intellettuali organici al partito comunista – gli rimproverava di avere costruito, attraverso le sue ricerche sulla follia e sulla nascita delle prigioni, una sorta di metafisica del potere, una visione nella quale il potere arriva a coprire e soverchiare l’intero reale, il filosofo francese opponeva un’insurrezione fatta di una trama di strategie e lotte: “Quel che voglio fare è operare una interpretazione, una lettura di un certo reale, tale per cui, da un lato, questa interpretazione possa produrre degli effetti di verità e, dall’altro, questi effetti di verità possano diventare degli strumenti nell’ambito di lotte possibili. Dire la verità perché sia attaccabile. Decifrare uno strato di realtà in modo che ne emergano le linee di forza e di fragilità; i punti di resistenza e i possibili punti di attacco, le vie già tracciate e i percorsi che le intersecano. Quel che cerco di far apparire è una realtà di lotte possibili”. Il potere – nella concezione di Foucault – è un campo di forze e di rapporti di forze, sempre reversibili, mobili, aperti. Dove c’è potere c’è resistenza, e quindi possibilità di operare il cambiamento, di agire su registri nuovi, di attivare rapporti inediti, di aprire nuove lotte. Un percorso che porterà Foucault a collocare al centro del suo discorso filosofico la pratica della libertà.

Una ricostruzione della costellazione del pensiero di Foucault (dei suoi snodi, dei suoi “spostamenti teorici”, dei suoi ripensamenti, delle sue aporie) è offerta da Vincenzo Sorrentino ne Il pensiero politico di Foucault. Il potere, l’intreccio tra sapere e potere, le discipline, la genealogia, la cura di sé, l’ascetismo, la stilizzazione dell’esistenza, il soggetto e le tecniche di soggettivazione: un pensiero che a distanza di oltre venti anni dalla morte del filosofo non smette di affascinare e inquietare. Sorrentino individua il “cuore” del discorso di Foucault – che in qualche modo ha guidato tutto il suo percorso – e che il filosofo francese eredita da Nietzsche: “Il principio generale di Foucault è il seguente: ogni forma è un composto di rapporti di forza” (Deleuze). Non c’è una sostanza, un fondamento, un fondo. Non c’è un’origine, né una destinazione finale. “Lo spazio teorico all’interno del quale si muove la ricerca del filosofo francese – scrive Sorrentino – è costituito, innanzi tutto, dalla critica nietzcheana del soggetto e dalla correlata concezione del vivente come “configurazione complessa” e della realtà quale rete in cui “tutto è concatenato e condizionato”.
La concezione del reale come un campo di lotte, un fascio di rapporti sempre reversibili – “il reale è polemico” scrive Foucault – non costituisce una negazione della libertà, ma la sua esaltazione. Non si risolve in un restringimento dell’etica, ma nella sua stilizzazione. Ma quale libertà? Sorrentino evidenzia le oscillazioni semantiche che la pratica della libertà subisce in Foucault, una libertà da un lato concepita “come libertà dell‘individuo di porsi quale principio creatore di sé. Eppure, per un altro verso, essa è anche pensata quale libertà da sé, perdita di sè, uscita da se stessi. Si profila una concezione, allo stesso tempo, autopoietica ed estatica dell’individuo”.

Libertà ed etica: una non si dà senza l’altra, una è condizione dell’altra. “La libertà – ha scritto Foucault – è la condizione ontologica dell’etica. Ma l’etica è la forma riflessa che assume la libertà”.

Michel Foucault, Discipline, Poteri, Verità, Marietti
Vincenzo Sorrentino, Il pensiero politico di Foucault, Meltemi 

(Bombacarta- 2008)

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